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 2013  ottobre 20 Domenica calendario

HONG KONG 2,6 MQ


Non sono sicuro di ricordarmi Hong Kong. Né di volerlo fare. Ci sono cose che stanno meglio tra le sfumature di una vita, così da poterne dire: «Forse l’ho soltanto sognata». Ammesso che non sia stato così, alle sei del mattino ero in un noodles bar con l’amico di sempre, il parrucchiere delle star indigeno e un’ex modella di nome Claudia che aveva un problema. Camminando nella notte aveva infangato un paio di Jimmy Choo scamosciate color fucsia e cercava di ripulirle strofinandole con il brodo della mia zuppa. Tuttavia continuavo a mangiare, lentamente, perché l’acconciatore minacciava: «Appena hai finito vi porto a vedere l’altra Hong Kong». Oddio, ce n’era pure un’altra.
Ero finito lì per scommessa, perché era uno dei posti nel mondo dove ancora non ero stato, e tanto bastava. Avevo scelto un hotel nella parte “vera” della città, quella impraticabile, dove non attraversi mai una strada, cammini in tubi di vetro sospesi, ti ricordi i percorsi collegandoli ai negozi grandi marche dove prendi le svolte, incontri pochi inglesi o americani, ma tanti cinesi, non capisci un’acca, ma ne vedi molte. E tante ics. E ipsilon. Il mio albergo si chiamava Jia. L’ha disegnato Philippe Starck. Lo scrittore Limonov racconta di aver notato la somiglianza tra gli impianti idraulici di una galera russa e quelli realizzati dal designer francese. Si ritiene l’unico al mondo ad aver sperimentato entrambi gli ambienti. Bastava scostare la tenda della stanza d’albergo per vedere un carcere di fronte. La Matrix delle celle. Gli alveari. Appartamenti su appartamenti, al quadrato, al cubo, all’ennesima potenza. Una Legoland impazzita: perché nessuno ha fermato il bambino che trasformava in ossessione il suo gioco e non viceversa? Hanno preso i projects, le case popolari di New York, hanno espiantato il cuore ed eccola lì, la città fatta di città. Se un giorno non funziona l’ascensore lungo le scale c’è il finimondo. Quando funziona, il finimondo è in ascensore. Ci sono parti di Hong Kong dove questo incubo è nascosto. O puoi scambiarlo per una qualsiasi infilata di grattacieli puliti e illuminati bene. Finché verrà il giorno a fare giustizia.
La notte è, più che altrove, un inganno. La trascorri sulla terrazza del Sevva Bar, al venticinquesimo piano, a guardare il palazzo al neon della banca Hsbc disegnato da Norman Foster, aspettando che un cameriere disperso ricompaia con la tua ordinazione. Lì trascorre la vita agra e dolce degli espatriati, quelli che (copyright Dalla-De Gregori) hanno “alle spalle una storia improbabile”. Ne ho conosciuto uno che abitava lì e batteva l’Asia per conto del Guinness dei primati. Controllava che la ragazza con il record di piercing (128) ne avesse effettivamente 128, contandoli uno a uno. È stato lui a verificare il record (per ora) dell’appartamento più piccolo: 2,6 metri quadrati. Ci “abita” un disoccupato. Al netto di queste escursioni nell’altra Hong Kong per motivi professionali, la sua città, come per molti, era fatta di rasature al Mandarin, dove lo stesso barbiere esercita da quarant’anni, di cene da Tokyo Joe e, soprattutto di notti senza fondo al Dragon I, il club meglio frequentato, dove qualcuno, agitato da una solerzia immotivata, mi ha condotto nella più ovattata delle stanze, una camera dentro una camera dentro una camera, foderata di cuscini e velluti, dicendomi: «Questo è il sancta sanctorum: ieri sera l’abbiamo riservato a Paul McCartney». Poi ha fatto un inchino e si è ritirato chiudendo la porta senza rumore. Sono rimasto a immaginare dodici persone impilate in quello spazio: undici sconosciuti e un ex dei Beatles. Quando ne sono uscito c’erano la notte, il fango, le Jimmy Choo fucsia e il parrucchiere delle star che voleva portarci nell’altra Hong Kong. A noi occidentali mettono un brivido espressioni come “l’altra”, “la vera”. Ci piacciono da morire “i contrasti”, “l’effetto Blade Runner”, le insegne delle banche che gettano luce sulle baracche, i vicoli che possiamo attraversare senza doverci voltare indietro per assicurarci che ancora esiste la porta di casa. Per questo ci fa impazzire Hong Kong. Una tra le città più ricche del mondo, ma capace di nascondere in quegli alveari migliaia di poveri. Di spingere nello stesso anno ottantamila famiglie sotto la soglia di sopravvivenza e ottomila nella superclass dei miliardari. La teoria dell’1% del pianeta che guadagna (e consuma) quanto il restante 99% a Hong Kong assume un valore anche fisico: l’1% occupa uno spazio pari all’altro 99%. Anche di più, probabilmente di più. L’inquilino del mini appartamento record appoggia il materasso alla parete quando non dorme e ci si siede con la schiena contro per mangiare, distendendo a malapena le gambe. Chi riesce a mettere sul pavimento un letto (meglio: chi ha un letto) non ne scende praticamente mai: occupa due terzi della superficie disponibile.
A Hong Kong vivono sette milioni di persone su poco più di mille chilometri quadrati: se scendessero tutti in strada contemporaneamente la città sarebbe un puntaspilli. Quando rientrano il 99% sta in puntaspilli verticale, l’1% a casa. Il passaggio alla Cina (avvenuto all’inizio del 1997) non ha migliorato la situazione. Il socialismo qui è un orizzonte. La regola “un Paese due sistemi” è un alibi per lasciare che le cose facciano il loro corso nel modo più spietato: vadano come vadano, chi ce la fa, bene, gli altri restano indietro. Meglio, sotto.
Eppure boat people in fuga dalle campagne cinesi continuano ad arrivare. Per abitare nelle celle esiste una lista d’attesa, gli affitti sono paradossalmente alti, ci sono violenze tra squatter abusivi e inquilini regolari, tra tutti quanti e la polizia.
Quando usciamo nuovamente per le strade di Kowloon City è quasi mezzogiorno e non dormiamo da trenta ore. Per questo ci sembra di esserci svegliati da un incubo, uno di quelli in cui ti rassicuri: sto sognando, un posto così non può esistere. La disperazione africana è consolata dalla natura. L’India ha il rifugio della fede. Qui, niente. Capitalismo e socialismo sommandosi si elidono a vicenda: non esiste la speranza di arricchirsi, non esiste l’illusione che lo Stato ti protegga.
Prevedendo che il tassista non parlasse inglese, all’hotel mi hanno dato un biglietto con l’indirizzo e la scritta in cinese: «Portami a questo albergo, per favore». Ogni occidentale, per quanto orientalista, dovunque nell’altromondo ha in tasca un foglietto del genere.