Franco Cordelli, La Lettura, Corriere della Sera 20/10/2013, 20 ottobre 2013
POLI E MISSIROLI NEL PAESE DI PULCINELLA
Due libri che si possono accostare per l’età degli autori e per la loro professione. Ma anche, e soprattutto, per la loro qualità. Sono Il moderno e la crepa di Mario Missiroli e Alfabeto Poli di Paolo Poli. Il primo è un dialogo con Andrea Rabbito; il secondo è a cura di Luca Scarlini, che ha selezionato una impressionante quantità di materiale ricavandone un’autobiografia, o un romanzo, o un libro di aforismi, alla Vauvenargues — per citare un autore di quel Settecento che Paolo Poli dice essere il secolo a lui, antiromantico, più caro. Il moderno e la crepa (Mimesis, pagine 278, e24) è non solo la ricapitolazione di una vicenda artistica, ma un saggio vero e proprio; e Alfabeto Poli (Einaudi, pagine 176, e 20,40) è il più bel romanzo che sia uscito in Italia nel 2013 (siamo alla fine di ottobre, per smentire questa opinione restano solo due mesi). Non ricordo l’ultima volta che ho incontrato Missiroli, in tutto non molte, da anni egli vive a Torino. Rammento una cena a casa di Luigi Malerba durante la quale egli chiarì ai convitati, stando alla dittatura dei tempi, la differenza tra teatro di prosa e teatro lirico. Ricordo bene invece la prima volta (di due) in cui ho incontrato Poli. Ero amico della amatissima sorella Lucia, castamente c’eravamo baciati durante uno spettacolo (ma questo l’ho già scritto, recensendo quello spettacolo), Paolo ci raggiunse in un ristorante di Campo de’ Fiori. Credo non disse più che una o due delle sue folgoranti battute: ne captai l’indicibile dolcezza, la struggente ironia. Moderni fino allo spasimo l’uno e l’altro, la comune bestia nera è l’identificazione. Dice Missiroli: «In teatro non si può prescindere dal coinvolgimento critico dello spettatore. Altrimenti ci vuole l’inganno, ci vuole il cinema. L’identificazione è nemica del teatro», dove con ogni evidenza l’aggettivo che separa gli assai prossimi coinvolgimento e identificazione è «critica». Per Poli il nocciolo (l’analogo nucleo di modernità) è tutto nel travestimento: io non sono un uomo sono una donna, io non sono un omosessuale sono una suora: «Sono un divulgatore, non un pensatore, mi attacco alle cime letterarie e le trasformo in un’ora e mezza di spettacolo. Non fuggo però mai dalla realtà. La fantasia non è volare a vanvera nel cielo». E a proposito di autobiografia, di romanzo e di identificazione aggiunge: «Per quello che mi riguarda acchiappo Balzac e vo a dormire con lui, che è il vero amore». Che cosa sia la «crepa» lo dice Rabbito in una delle sue domande: «Sei stato un enfant prodige della cultura italiana (...); non uno che ha rotto i vasi ma quello che ha crepato i vasi pur riuscendo a rimanere nel sistema». Dunque, direi, il riformismo di Missiroli. Egli non fu un rivoluzionario (gli anni del debutto erano quelli dell’avanguardia gestuale, dell’«immagine»), ma un riformista: che cosa fu, in una cantina romana, a metà degli anni Sessanta, il suo Witkiewicz? Chi, prima di Missiroli, aveva messo in scena Gombrowicz? Poi vennero gli anni dell’impegno politico, venne A proposito di Liggio , venne Tragedia popolare : il suo Mussolini, dice Rabbito, «continua a vivere, e trova spazio all’interno della società dello spettacolo». «Solo (glossa Missiroli) che la moglie lo ammazza per adulterio. Canzonette fasciste e morte generale. Morti tutti: lui, Ciano, Claretta e il popolo italiano». In tutt’altro stile, non è il cruccio esistenziale di Poli? Alle Celebrazioni («quelle sono l’unica cosa che il fascismo non ci ha fatto mancare») egli risponde con la Rivista («i miei sessant’anni di teatro non sono stati anni di carriera. Sono stati anni di educazione sentimentale»). Ma l’identità, sua, è sempre una non-identità: «Sembro buono, ma sono perfido»; e l’identità italiana resta quella di Missiroli: «Sappiamo vendere il niente, siamo sempre andati in giro a raccontare Arlecchino e Pulcinella».