Sandro Modeo, La Lettura, Corriere della Sera 20/10/2013, 20 ottobre 2013
QUALI SONO OGGI I LIMITI DELL’UOMO NELLE PRESTAZIONI ATLETICHE?
Ogni volta che una performance o un record-monstre sposta una disciplina sportiva in un futuro indefinito, scatta la tentazione di sondare gli estremi fisiologico-agonistici dell’Homo Sapiens . È successo con gli 8,90 metri di Beamon nel lungo (durati 23 anni), con i 6,14 metri di Bubka nell’asta (risalenti al 1994) e, va da sé, coi break esercitati da Usain Bolt nella velocità, ritoccabili sul breve solo da lui stesso (o forse da un Blake), anche se sui 30 metri persino un calciatore come Aubameyang (3’’70) gli è superiore. E ogni volta, le proiezioni-valutazioni sono (fatalmente) contraddittorie: secondo certi studi, proprio la velocità sarebbe già prossima ai confini ultimi; secondo altri (vedi il bestseller di John Brenkus, The Perfection Point ) saremmo invece lontanissimi da un record dei 100 metri (8’’99) che un esemplare della specie potrà toccare nel 2909. Brenkus, del resto, nel suo futurismo cronometrico, va molto oltre, immaginando i punti di non ritorno nella maratona (1h 57’57’’ nel 2245), nel nuoto (i 50 stile libero in 18’’15 nel 2256) e nel golf (un drive di 496 metri nel 2152). Si tratta di pure astrazioni teoriche, che hanno però il merito di ricordare la cornice ambientale entro cui ogni atleta si muove: quei vincoli fisici (gravitazione, attrito, leggi del moto) che esercitano su ogni prestazione una pressione tanto invisibile quanto costante. Più realistico (anche se non meno visionario, anzi) sarà osservare i mutamenti in corso o imminenti, sia a livello di evoluzione morfologica e tecnica (l’inedito rapporto ampiezza/frequenza nella falcata di Bolt o la corsa turbodiesel di Rudisha), sia a livello di protesi biotech (dalle membrane sintetiche tra le dita dei nuotatori ai nano-trasportatori di ossigeno nel sangue). Il fattore-chiave, però, sarà il doping, chiarito una volta per tutte come la sua pratica sia ineliminabile (vi ricorrono percentuali altissime di atleti anche tra i paraolimpici) e come consentirla sotto assistenza medica sia forse il solo modo per evitare in futuro sbocchi tragici (caso Florence Griffith) o drastiche (e ipocrite) riscritture retroattive degli albi d’oro (dopo Armstrong, gli stessi sprinter giamaicani, uomini e donne). In particolare, la frontiera sarà il doping genico, con l’uso di molecole come quelle (al momento sperimentate solo sui topi «taurini») attive sul gene GW 1516, decisivo nello sviluppo delle fibre muscolari. Certo, oltre a rischi biomedici (lo shock immunitario), la prospettiva profila divari discriminatori: se, come ha mostrato David Epstein in un libro recente (The Sports Gene ), le qualità biologiche incidono più di quelle «culturali» (training in testa), alcuni atleti potrebbero arrivare col doping a vantaggi genetici incolmabili. Ma evocare spettri da distopia fanta-horror non serve: la selezione naturale e quella sessuale fanno di ogni individuo una macchina metabolica programmata per competere e riprodursi: la tensione alla vittoria e al record altro non è che un’ applicazione particolare di quello slancio inesauribile.