Elasti, D Repubblica 19/10/2013, 19 ottobre 2013
IN QUEL CELLULARE C’È TUTTO IL MONDO VISTO DA MIO FIGLIO
Mio marito, l’economista marxista barese, ha un rapporto difficile con i telefoni cellulari. Probabilmente li considera uno strumento del demonio, un prodotto voluttuario figlio del capitalismo più barbaro o forse solo un oggetto antipatico. Per questo, finché ha potuto, si è rifiutato di possederne uno.
«Ora basta. O compri un cellulare o cerco un altro marito con la reperibilità incorporata», dissi quando arrivò il figlio numero tre, quasi quattro anni or sono. Lui, in un accesso di remissività, capitolò e comprò il modello più primitivo, antiestetico ed economico dell’ipermercato. «Mi fa schifo», disse estraendo il suo gioiello dai sacchetti della spesa e dimenticandolo sul tavolo della cucina, tra il latte e la farina.
Da allora lo strumento del demonio rimase prevalentemente spento o inascoltato, spesso dimenticato oltremanica o oltreoceano, o dentro tasche di giacche insonorizzate. Restò li, inutilizzato, come le cravatte, il pettine e il panno per pulire gli occhiali. Restò li fino a quando non fu scoperto dal figlio piccolo che, da buon terzogenito, è abituato a farsi largo sgomitando in sordina o a insinuarsi nelle maglie larghe della sbrindellata trama familiare, scovando tesori nella distratta negligenza altrui.
«Cos’è? Fa le foto?», domandò brandendo lo scarto tecnologico. «È il cellulare di papa. Non so se faccia fotografie ma tu smettila di aprirlo e chiuderlo, altrimenti si rompe».
Il piccolo, con la caparbia determinazione dei suoi tre anni e mezzo, adottò lo strumento reietto e regalò a quell’esistenza grama, una seconda chance.
Varie volte, nel corso della giornata, lui inchiodava, estraeva l’oggetto, lo scuoteva vigorosamente («Perché lo agiti in quel modo?». «Perché cosi le foto vengono meglio»), lo apriva, metteva a fuoco e, click, scattava per poi richiuderlo, shakerarlo ancora una volta («E adesso perche lo scuoti ancora?». «Lo so io perché») e riporlo. Per settimane, per mesi, si è aggirato serio, compito, orgogliosamente compreso nel suo nuovo ruolo di cacciatore di immagini al telefono, muovendosi, come gli capita spesso, ben sono il radar genitoriale.
Qualche giorno fa ho trovato il telefonino dimenticato sul tavolo della cucina, tra un succo di frutta e i biscotti. L’ho liberato dalle briciole e ho aperto la cartelletta «Fotografie».
Ce ne erano 346, da giugno a oggi. Inquadrature sbilenche, spesso sfuocate, catturate da un’altezza ombelicale. C’erano cicli, piastrelle del pavimento, la testiera del letto capovolta, la corteccia di un albero, due formiche, il sacco nero della spazzatura, la scritta sul cartone del latte, un lombrico che sembra una foglia, una foglia che sembra un coccodrillo, una macchinina rossa, la portiera di un’automobile blu, un sandalo senza piede, un piede senza scarpa, i miei capelli legati con un fermaglio, la barba del papa, la guancia di un bambino piena di lentiggini, il sole, bianco, nero.
E poi, li dentro, in quella cartelletta bislacca, c’erano un fratello con il suo sorriso sgangherato e sdentato, la nonna con la borsa rossa, una signora incontrata per la strada che fa ciao con la mano, la panettiera con il grembiule blu, la cassiera del supermercato, con la messa in piega, il benzinaio, un passante a cui avevamo chiesto informazioni, un altro fratello che fa le boccacce, un autoritratto del fotografo che si guarda allo specchio, la dirimpettaia mentre stende i panni al davanzale e ride.
C’erano le estreme propaggini dei nostri sguardi frettolosi, mondi ai margini, nobilitati da un tizio di taglia mignon che shakera, apre, scatta, chiude, rishakera. C’era il suo punto di vista sugli abitanti di quei mondi, visti dal basso: primi piani di pance, di sederi, di menti, di bocche. E scorrere quelle immagini strampalate e sghembe è stato illuminante, come affacciarsi su un panorama esotico, come ritrovare l’incanto, come sbirciare nella testa di un ragazzine che sfugge al radar e shakera i telefonini, perché «lui sa».