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 2013  ottobre 19 Sabato calendario

FIERA DI ESSERE KENNEDY


Avevo solo 4 anni eppure qualche ricordo mi è rimasto, nitido. Per esempio quando giocavo a nascondino con i miei cugini Caroline e John-John sotto la scrivania dello Studio Ovale, nella Casa Bianca. Ho poche immagini nella memoria, ma sono molto dolci». Kerry Kennedy è preparata alle domande sulla saga tragica della sua famiglia, la più celebre, amata, controversa dinastia politica della storia americana. Sa che dovrà rispondere a un’escalation formidabile di quesiti, di nostalgie, di curiosità anche morbose, con l’avvicinarsi della ricorrenza più importante di tutte: il 50esimo anniversario dell’assassinio di suo zio John Fitzgerald Kennedy, ucciso a Dallas il 22 novembre 1963. Ma come nelle famiglie regnanti (almeno quelle serie), tra i Kennedy si cresce educati al proprio compito nella storia, che include tra i doveri ereditari anche quello di soddisfare l’inestinguibile curiosità popolare.

Kerry, 54 anni, è figlia di Bob Kennedy: a sua volta assassinato, durante le primarie democratiche del ’68 che avrebbero dovuto proiettarlo alla Casa Bianca come il fratello maggiore. Kerry sa assolvere il suo compito con grazia, con fair play, perfino con un tocco di candida spontaneità. Non si sottrae alle mie domande più scontate e obbligatorie su quegli anni terribili che seminarono lutto e dolore nella loro famiglia, oltre che nell’America intera. Dai suoi ricordi si sprigiona tutta la forza di una leggenda, qualcosa che combacia con l’epopea di Camelot, come venne definita la Casa Bianca di JFK. La definizione resta nel linguaggio corrente degli americani e ha un’origine precisa: lo storico Theodore White, biografo dei Kennedy e autore di una trilogia dedicata al solo JFK, gli incollò addosso la definizione di re di Camelot, come il mitico Artù nel ciclo della tavola rotonda. Un po’ perché Kennedy era avido lettore dei romanzi vittoriani sull’epoca cavalleresca, ma soprattutto perché John e Jacqueline erano andati a vedere un musical di Broadway, Camelot, dove di Re Artù si esaltavano la bellezza e la giovinezza troncate prematuramente.

Di quel mito qualcosa è trascolorato nei frammenti d’infanzia che mi racconta Kerry. «Un’altra immagine felice rimasta - dice - è quella dei weekend nella grande villa di famiglia a Hyannis Port, sul promontorio atlantico di Cape Cod. Ogni venerdì arrivava l’elicottero dei marines, quello che ci riportava dalla Casa Bianca i nostri papà. Sapevamo che ci viaggiavano mio zio John, mio padre Bob (all’epoca ministro di Giustizia) e lo zio Sargent Shriver, anche lui al governo. Il loro arrivo era atteso, c’era una grande trepidazione. Quando l’elicottero atterrava sul prato della nonna, tutti noi figli e nipoti ci affollavamo lì attorno. Era l’inizio ufficiale del nostro weekend. Jack, come chiamavamo in famiglia il presidente, riuniva il maggior numero possibile di bambini sul suo golf-cart e ci portava in giro. Erano momenti di gioia, di divertimento, e non solo tra noi bambini. Vivevamo, di riflesso, le emozioni degli adulti, delle nostre mamme, dei nonni, delle ore spensierate di vita familiare».
È bello essere riusciti a conservare almeno quegli sprazzi di serenità, in un album di famiglia che di lì a poco sarebbe stato scritto con il sangue. Le chiedo come fa una donna che rimase orfana di padre all’età di 9 anni, in un ciclo di assassinii e di violenze che sconvolsero l’America, a non avere verso quegli anni Sessanta un rigetto, un senso di orrore profondo. «Certo - risponde Kerry - la morte di mio zio, poi cinque anni dopo l’uccisione di Martin Luther King e infine a sei settimane di distanza quella di mio padre: fu un periodo straordinariamente doloroso per tutta la mia famiglia, e anche per la nazione, per il mondo intero, credo. Ma non fu solo quello. Gli anni Sessanta, anche per noi Kennedy segnati in modo così tragico, restano d’altra parte un’epoca di protagonismo dei giovani ricca di possibilità, un tempo in cui generazioni di americani ebbero fiducia nella propria capacità di affrontare sfide storiche, e di fare la differenza». Di nuovo uno spezzone di diario intimo, di lessico familiare, scivola dentro questa rievocazione. «Per dire lo spirito del tempo: mi torna in mente che da bambina cercavo sempre di allacciarmi le scarpe in modo che i due lacci fossero esattamente uguali: era un piccolo gesto in favore dell’eguaglianza». Affiorano ricordi più impegnati: «Avevo 9, 10 anni, e già con mia mamma Ethel si andava ai cortei di protesta contro la guerra nel Vietnam. Era un’epoca di grandi sconvolgimenti ma anche di impegno politico, i giovani erano convinti di avere un ruolo. Mio zio Shriver aveva diretto la fondazione del Peace Corps e anche quello fu un segno dei tempi: servire come volontari della cooperazione civile all’estero, o come funzionari dello Stato, veniva vissuto come un mestiere nobile, non c’era il rancore indistinto di oggi contro il ceto politico-amministrativo».
Poiché siamo quasi coetanei e abbiamo quindi la stessa venerazione “generazionale” verso gli anni della nostra infanzia, le chiedo cosa dovremmo imparare da quel periodo, quale lezione degli anni Sessanta dovremmo salvare. «Non dimenticare mai il sacrificio di coloro che combatterono, dedicarono le loro vite, e a volte le sacrificarono, per i diritti umani più fondamentali. Nessuno di quei diritti è acquisito per sempre. Proprio di recente abbiamo visto forze potenti mobilitate per riacciare indietro alcune di quelle conquiste. Penso alla sentenza della Corte suprema che sostanzialmente ha dato il via libera ad alcuni Stati del Sud per imporre nuove restrizioni al diritto di voto delle minoranze. Anche contro i diritti delle donne c’è un’offensiva costante». Come Kerry, il 28 agosto scorso ero a Washington tra la folla che sfilava lungo il Mall per commemorare un’altra marcia di 50 anni prima, con 250mila manifestanti, guidata da Martin Luther King che pronunciò il suo celebre discorso I Have a Dream. Fu la manfestazione che sfociò nella legge sui diritti civili firmata da John Kennedy. Per Kerry quella marcia rappresenta un punto di riferimento anche personale: lei ha deciso di consacrare la sua vita ai diritti umani, con una fondazione intitolata al padre. «La lezione più bella del 1963 - dice - non è solo nella forza e nella dolcezza di quel discorso, I Have a Dream. È nel fatto che dopo il discorso Martin Luther King continuò a lottare in modo molto concreto, nelle città di tutta l’America, esercitando una formidabile pressione sulla classe politica. King fu la prova che le persone possono fare la differenza. Ciascuno di noi, impegnandosi, può farla».
Non rischiamo di scivolare nella nostalgia generazionale, con tutte queste rievocazioni degli anni Sessanta? Kerry ammette che il mondo di allora non era affatto migliore. L’America latina era dominata da dittature fasciste. L’Europa dell’Est era sotto il tallone dell’Urss, con repressioni sanguinose come quella della Primavera di Praga. Dalle Filippine ai Khmer rossi in Cambogia, l’Asia era segnata da oppressioni e abusi tremendi. In quanto agli Stati Uniti, neppure nei suoi sogni più audaci Martin Luther King poteva immaginare un nero alla Casa Bianca. A proposito di Obama, e dell’ostilità tenace che questo presidente continua a incontrare nella destra repubblicana, le chiedo dov’è finita l’illusione di un’America post-razziale, definitivamente rappacificata e conciliata con se stessa. «Post-razziale? È un termine che non mi è mai piaciuto. Di certo non descrive l’America in cui vivo. Certo l’elezione di Obama resterà una svolta storica, tuttavia ci sono solo sei afroamericani tra i 100 top manager più importanti. Un giovane di colore ha cinque volte più probabilità di finire in carcere rispetto a un coetaneo bianco. Un bambino nero ha quattro volte più probabilità di crescere povero. La strada da fare è ancora tanta».
È questa del resto la causa alla quale Kerry ha voluto dedicare la sua vita, la ragione sociale della Robert Kennedy Foundation. Lei ricorda che già all’epoca di Martin Luther King l’accento non era solo sui diritti civili (fine della segregazione, diritto di voto) bensì su quelli economici e sociali. Oggi questa seconda dimensione per lei è diventata prevalente. «La giustizia economica, l’accesso al lavoro, è questo che determina l’eguaglianza effettiva», dice. Anche tra i sessi: «Nonostante i progressi delle donne americane, il salario medio femminile è solo il 79% di quello maschile». E poi c’è un nuovo sottoproletariato al quale la sua Fondazione dedica molta attenzione: gli immigrati clandestini, gli stagionali sul cui sfruttamento fiorisce l’agricoltura della California e della Florida. Organizzare questi braccianti è uno dei compiti a cui si dedica Kerry. La interrogo su quanto sia cambiato l’impegno politico oggi, rispetto ai Sessanta. Per esempio col ruolo delle tecnologie, di Internet, dei social network. «Non condivido - dice - l’idea che allora ci fosse più impegno politico tra i giovani. Avendo partecipato alle mobilitazioni della base democratica per le due campagne elettorali di Obama, ho visto una una strordinaria vitalità dei giovani. Un altro aspetto positivo dell’epoca in cui viviamo è il fiorire delle Ong, che negli anni Sessanta erano quasi inesistenti». Sulle tecnologie digitali, la Fondazione Robert Kennedy tiene dei corsi speciali nella sua sede di Firenze: per addestrare cyber-dissidenti che sfidano i regimi autoritari nel mondo intero. Avendo studiato la questione, Kerry non si lascia affascinare dal feticismo delle nuove tecnologie. «Bisogna saperle usare. Sono solo strumenti. Con un martello puoi costruire una casa, oppure puoi demolirla. Dall’Iran alle primavere arabe, Facebook e Twitter sono stati usati dai dissidenti, ma sono stati anche manovrati come strumenti di controllo e di oppressione. Nella nostra sede di Firenze noi insegniamo ai militanti dei diritti umani a concentrarsi sulla sostanza, sui valori di fondo delle loro battaglie».