Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano 19/10/2013, 19 ottobre 2013
LUI SA
Se non fosse così mal consigliato e mal circondato, Giorgio Napolitano chiamerebbe i giornalisti e direbbe: “Diffido chicchessia dal parlare ancora a nome mio. Sbagliai, un anno fa, obnubilato dal mio ego smisurato, a ingaggiare un’assurda guerra contro i magistrati di Palermo che cercano faticosamente la verità sulla trattativa Stato-mafia, costata la vita a tanti innocenti. Così come sbagliai, prima, ad assecondare le richieste di protezione di un uomo disperato come Mancino, e a trascinare in un abuso di potere il mio consigliere Loris D’Ambrosio. Avrei dovuto dissipare subito le ombre che, a causa della mia leggerezza, si addensavano sulla mia persona e sull’alta funzione che ricoprivo e ricopro. Ma ora basta, ora ho deciso di rivelare quel che dissi a Mancino in quelle quattro telefonate ormai distrutte, anche se una sentenza della Consulta – da me richiesta con un ricorso che non si poteva rifiutare – mi consentirebbe di non farlo. Anzi, per mostrare anche visivamente che non ho nulla da nascondere né privilegi da rivendicare, rinuncio al mio diritto di essere sentito al Quirinale e testimonierò nell’aula della Corte d’Assise di Palermo, come un cittadino comune. E risponderò a tutte le domande, nessuna esclusa: sia su quelle maledette telefonate, sia sulla lettera che mi inviò D’Ambrosio sul timore che mi aveva esternato di essere stato usato in passato come ‘ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per ‘indicibili accordi’. Avrei dovuto farlo prima, spontaneamente, ma non lo feci perché sottovalutai i suoi turbamenti e ora me ne pento e intendo riparare, per quanto possibile, alle mie omissioni. Perché non voglio che la mia reputazione venga macchiata, agli occhi dell’opinione pubblica e anche della storia, da condotte che possano apparire reticenti. Quindi prego il ministro Cancellieri, il saggio Violante, i giuristi e gli editorialisti e i quirinalisti corazzieri che ancora in queste ore, credendo di farmi cosa gradita ma rendendomi un pessimo servigio, attaccano i giudici di Palermo per avermi citato come testimone nel processo sulla trattativa di riporre le armi e le penne: sono io il primo a volermi mettere a disposizione della Giustizia, come ogni buon cittadino deve fare in questi casi, per raccontare tutto ciò che so”. Sarebbe un atto nobile e apprezzato da tutti coloro che leggono con inquietudine le incredibili panzane pubblicate dai giornali e non possono fare a meno di intravedervi l’ispirazione del Colle, purtroppo abituato da anni a far precedere le sue mosse da un borbottio di cortigiani teleguidati o proni a tutto. Repubblica e Corriere descrivono, citando le solite “fonti del Quirinale”, un Presidente che mediterebbe addirittura “un nuovo ricorso alla Consulta” (un altro conflitto di attribuzioni, stavolta contro la Corte d’Assise), “irritato” e pieno di “riserve” contro i giudici che avrebbero addirittura “aggirato” la sentenza della Consulta del 4 dicembre 2012: sentenza che riguardava le telefonate con Mancino, non certo la lettera in cui D’Ambrosio ricordava al capo dello Stato di avergli esternato (“Lei sa”) i suoi timori, e che timori! Il trio Ferrara-Sallusti-Belpietro difende con pelosa solidarietà Napolitano da presunti “ricatti”, “invasioni” e “strapoteri” giudiziari, per accomunarlo con sillogismi farlocchi alla cosiddetta “persecuzione” di Berlusconi. Il presidente emerito della Consulta Piero Alberto Capo-tosti, sul Messaggero , si gioca quel che resta della sua reputazione criticando la decisione dei giudici come un ennesimo, immaginario “scontro fra politica e magistratura”. Ma anche come un “trabocchetto” per sindacare le “attività informali del Presidente” dichiarate insindacabili dalla Consulta. Come se queste potessero includere l’occultamento di notizie sulla trattativa Stato-mafia trasmesse a Napolitano dal suo consigliere che nulla c’entrano con le attività presidenziali, né informali né funzionali.
Infatti riguardano il periodo 1989-’93, quando né D’Ambrosio né Napolitano sedevano al Quirinale, e che riguardano al massimo cose fatte da D’Ambrosio, non certo (si spera) da Napolitano. Sarebbe come se un cittadino, poi scomparso, avesse confidato al Presidente di aver assistito a un delitto e il Presidente rifiutasse di testimoniare al processo per l’omicidio, trincerandosi dietro le sue “attività informali”.
Poi ci sono i corazzieri della penna, tipo il solito Massimo Franco, che riesce a superare persino se stesso (il che è tutto dire). Sostiene, sulla prima pagina del Corriere , che la testimonianza del Presidente non è un sacrosanto dovere civico, una prova di trasparenza e un bel-l’esempio per tutti gli italiani, ma un fatto “surreale” che desta “stupore e perplessità”, un “ulteriore strattone di alcuni settori del potere giudiziario” (una Corte formata da 2 giudici togati e 6 giurati popolari estratti a sorte) che avrebbero dovuto non citarlo per “una questione di opportunità”: come se i magistrati soggetti soltanto alla legge fossero dei politici che agiscono in base alla convenienza del momento. Ad avviso del Franco, il processo sulla trattativa non nasce dal fatto che c’è stata una trattativa, ma da un non meglio precisato “conflitto trasversale fra spezzoni della magistratura e dei partiti” (quali? in che senso? ma de che?). E citare Napolitano come teste sarebbe un modo per “gettare ombre” su “uno dei pochi ancoraggi” dell’Italia a livello internazionale”, addirittura un “attacco al Quirinale” per “dare una spallata al governo delle larghe intese” con un “nuovo conflitto tra vertici dello Stato” (Franco non si dà pace neppure della convocazione come teste “perfino di Piero Grasso”, manco fosse Nostro Signore). Ora, a parte il fatto che il governo le spallate se le dà da solo, sfugge l’attinenza fra la testimonianza presidenziale e il governo. Possibile che il primo giornale d’Italia non si renda conto che testimoniare è un dovere di ogni cittadino e che a “gettare ombre” su Napolitano anche “a livello internazionale” sarebbe proprio il suo rifiuto di riferire su fatti così gravi? Signor Presidente, per carità, si dissoci dai suoi corazzieri e corra dai giudici a dire tutto ciò che sa. È l’ultima occasione.