Elena Masuelli, la Stampa 19/10/2013, 19 ottobre 2013
COVACICH: “UN COLPO DI GENIO CHE SEMBRA UN’IDEA NEO-DADAISTA”
«Quella del Museo della Bora è un’idea divertentissima, quasi neo-dadaista. È come creare una scatola al vento. Una di quelle invenzioni fra la bizzaria e il colpo di genio, alla Piero Manzoni o Gino De Dominicis». Mauro Covacich, scrittore triestino, parla della Bora in termini fisici.
«Chi vive in città ne ha un’esperienza molto forte, direi quasi sensuale. Non è un fenomeno costante, è imprevedibile. Arriva all’improvviso, sta due o tre giorni, colpisce a raffiche violente. Poi se ne va. Non è come il Foehn, che fa venire mal di testa, o il Mistral, che agita. Ha una sua corporeità».
Allora non è uno stereotipo?
«Certo, il mondo ci conosce in particolare per questa caratteristica. Al meteo nazionale parlano di Trieste solo se c’è da segnalare Bora, sempre con le stesse immagini di repertorio: signore con gli ombrelli rivoltati, ad arrancare tenendosi alle corde con cadute spettacolari. Ma spesso mi è capitato di chiamare mia mamma - io vivo fuori da qualche anno - e sentirmi rispondere che era tutto normale».
Un elemento quasi famigliare?
«Magari il cittadino se ne lamenta, come per una grande nevicata, che sporca le strade e blocca il traffico. Ma è solo una prima reazione, quasi istintiva. Quando il vento si placa, difficilmente ne parla con fastidio, anzi, ci è in qualche modo affezionato, anche se è complicato, soprattutto per gli anziani. È raro che la bora non diventi parte dello stare nel mondo di un triestino che, se si trasferisce, ne sente la mancanza quanto quella del mare».
Il suo «Trieste sottosopra» (Laterza) propone itinerari nella città battuta dal vento.
«Alla Bora ho dedicato il secondo capitolo in particolare. È un elemento di attrazione, un monumento di Trieste che però non si può visitare. Anche se ci sono luoghi simbolici che la ricordano e la celebrano, come via della Bora».
E i suoi ricordi?
«Il primo è quello di mia nonna, che era nata a Potenza. Il suo passatempo preferito, nelle giornate di vento, era sedersi davanti alla finestra a guardare la fermata degli autobus con le persone che scendevano, a carponi o sedute per terra. E poi gli “iazzini”, i ramponi che i vecchi usavano quando le suole delle scarpe non erano antisdrucciolo. Appartengono alla tradizione di ogni casa. Ma il più bello è quello di me bambino: giocavo in cortile, con i miei amici, aprivamo l’eskimo e provavamo a farci sollevare dalle raffiche di Bora. Da piccoli pareva davvero di volare».