Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  ottobre 19 Sabato calendario

LA PARATA DEGLI ASPIRANTI PRESIDENTI COSÌ L’ANTIMAFIA DIVENTA SCENEGGIATA


Roma — Se questo è l’inizio, forse è meglio non farla. Troppe manovre, troppe mani che si allungano sulla commissione. Per non parlare poi di certi nomi. Ma abbiamo davvero bisogno di un’Antimafia così?
Sono tutti contro tutti, si arrogano di imporre un loro presidente, mettono veti, minacciano ritiri, fanno mancare il numero legale, insultano quelli degli altri partiti e pure se stessi, scalpitano, eruttano banalità. Una recita indecente. Le mafie italiane ringraziano tutti gli onorevoli della rispettabilissima commissione parlamentare antimafia.
Alcuni sono veterani, molti debuttanti, altri hanno già dato prova di non capire granché della materia o — peggio — di capirne fin troppo. Per esempio il senatore Claudio Fazzone, califfo del Pdl nel basso Lazio, quello che ha fatto di tutto per non far sciogliere qualche anno fa il Comune di Fondi ammorbato da infiltrazioni
di ‘ndrangheta e camorra. Si è imposto prepotente anche sul ministro degli Interni Maroni, dopo tre consigli dei ministri Fondi non si è sciolto. Ma il senatore è stato soprattutto autista — non civile, ma “uomo di apparato”, Viminale — di Nicola Mancino quando era ministro degli Interni nell’estate del 1992, ai tempi della famosa trattativa fra Stato e mafia nella quale è scivolato come imputato lo stesso Mancino. Sarà Fazzone, a indagare per noi, in commissione su ciò che è accaduto fra la strage di Capaci e l’autobomba che ha ucciso Borsellino?
Un altro amico di partito che gli è accanto in commissione è Donato Bruno, avvocato, in Parlamento da 17 anni, uno molto vicino a Cesare Previti, il legale “aggiusta processi” di Berlusconi. Donato Bruno nel 2002 aveva manifestato la sua idea sul 41 bis («Lo abrogherei, è solo una tortura») e poi ha manifestato «rammarico» per le indagini — concorso esterno — sull’ex presidente del Senato Renato Schifani. Non c’è dubbio, Fazzone e Bruno, sono le persone giuste al posto giusto in questa Antimafia. Bruno è stato indicato addirittura come presidente dal suo partito in contrapposizione con la candidata del Pd, Rosy Bindi.
Tutt’altra la storia della Bindi, naturalmente. Ma perché designare proprio lei alla presidenza di questa commissione, quando nella sua campagna elettorale — era capolista in Calabria — non ha dedicato un solo incontro «alla lotta alla ‘ndrangheta» ammettendo candidamente, davanti a più testimoni, «di non sapere niente di mafia»? Siamo sicuri che sia un’altra scelta azzeccata?
Tutt’altra la storia anche di un altro candidato presidente, Stefano Dambruoso di Scelta Civica. Ha iniziato come sostituto procuratore ad Agrigento, poi a Milano, poi ancora un ruolo di coordinamento antiterrorismo a Vienna, all’Onu. Un incarico dopo l’altro, tutti di nomina politica. Quando era in procura a Milano e indagava sul rapimento dell’imam Abu Omar, ha raccolto il suo traffico telefonico sbagliando clamorosamente le date (ordinando l’acquisizione di quello un mese dopo il sequestro, il 17 marzo 2003 invece del 17 febbraio, errore rimediato dal pm Agostino Spataro), ha definito «una bizzaria dietrologica» il prelevamento dell’imam da parte degli agenti Cia (“Milano-Bagdad”, Mondadori 2004, pag. 54), ha accostato impunemente i nomi dei nostri colleghi Giuseppe D’Avanzo e Carlo Bonini a un’attività di intossicazione dell’intelligence, la stessa che nel frattempo spiava e pedinava i due giornalisti.
Dambruoso è anche quello che il 24 luglio scorso, in commissione giustizia alla Camera, ha provato a far passare il 416 ter del codice di procedura penale — voto di scambio — inserendo alcuni versetti satanici come «consapevolmente » o «procacciamento» che di fatto svuotavano il provvedimento e rendevano ancora più arduo incastrare un boss o un politico che vende i suoi servigi. Nell’operazione, è stato spalleggiato da Davide Mattiello, neo deputato piemontese del Pd (sconfessato immediatamente da gran parte del suo partito sul 416 ter), che neanche entrato in Parlamento si è già calato le braghe. Anche lui è in questa commissione antimafia. Evviva. Solo una campagna di questo giornale ha fermato i due furbacchioni.
Poi, in commissione, c’è anche Lorenzo Dellai, un altro di Scelta Civica, trentino. Destinato pure lui a presidente. Uno del suo movimento, il simpatico e pittoresco Andrea Vecchio, imprenditore della rivolta antiracket siciliana, lo ha definito «un vecchio politicante che la mafia l’ha vista solo in televisione». E si è autocandidato al posto suo.
Ma questi sono solo alcuni attori della parata parlamentare antimafia. Scorrendo i nomi dei 50 fra deputati e senatori (erano 30, quarantuno anni fa, quando per la prima volta fu istituita la prima commissione), troviamo Carlo Sarro del Pdl, avvocato di Nicola Cosentino indagato per concorso esterno in associazione camorristica; troviamo Vincenza Bruno Bossio del Pd, il cui marito Nicola Adamo — vicepresidente della Regione Calabria — è indagato per corruzione; troviamo Giovanni Bilardi, ex consigliere regionale a Catanzaro — “Lista Scopelliti” — sott’indagine per peculato. Una bella compagnia.
Pio La Torre, il parlamentare comunista ucciso a Palermo nell’81, l’uomo politico che volle fortissimamente l’Antimafia in Parlamento, in questa commissione — ne siamo certi — si sarebbe dimesso subito. Tanto tempo fa, l’aveva fatto per molto meno.