Luigi Ferrarella, Corriere della Sera 19/10/2013, 19 ottobre 2013
LA GARANZIA DI UN GIUDICE «FORTE»
Gli argomenti di chi lapida la corte d’Assise di Palermo e di chi invece la osanna, per aver chiamato a testimoniare i presidenti della Repubblica e del Senato nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, mostrano che ormai, molto più dei pm, e molto più insidiosamente per la tenuta del sistema, sono i giudici a veder disconosciuta in radice la matrice neutrale delle proprie decisioni criticate o acclamate, e a sentirsi domandare quasi di adeguarle (anziché solo al diritto) anche alle geometrie variabili di sdrucciolevoli «opportunità» e di anfibie «compatibilità» con questa o quella supposta priorità extragiudiziaria.
Correnti del genere affiorano, al di là delle intenzioni, sia nel disappunto manifestato dal vicepresidente del Csm già sulla «mancanza di rispetto» dei pm nel chiedere di citare come teste Napolitano, sia nel commento a caldo («sono perplessa, mi sembra inusuale») che il ministro della Giustizia ha espresso sulla deposizione contemplata dal codice, ammessa entro i limiti della corte Costituzionale del 4 dicembre 2012, e circoscritta al tentativo di chiarire un passo, su fatti del 1989-1993, della lettera scritta al capo dello Stato il 18 giugno 2012 dal suo scomparso consigliere giuridico e divulgata proprio dal Quirinale in un libro. Ma anche taluni riflessi di pm svelano una certa idea di magistratura giudicante, se a Palermo un procuratore aggiunto, dopo le motivazioni di un’assoluzione che legittimamente non condivide, invece di concentrarsi sul ricorso, ha ritenuto di affermare che «se fossi un insegnante metterei un 4 meno alla sentenza dei giudici del processo Mori, perché chi l’ha scritta è andato fuori tema».
È l’aria che tira. E contagia ancor più i mezzi di informazione: ad esempio nelle aggressioni a mezzo stampa riservate (dopo la condanna di Berlusconi) a quegli stessi giudici di Cassazione che i medesimi giornali prima della sentenza dipingevano invece come campioni di una magistratura moderata non politicizzata; o nella disinvoltura con la quale adesso, alla vigilia di un altro processo, c’è di nuovo chi fa la conta delle «toghe rosse» o di quelle «blu» in collegio.
Persino le riflessioni se abbia ancora senso lasciare localmente polverizzata la competenza nei processi alle verticistiche Cosa Nostra e ‘Ndrangheta, oppure sia il caso di completare l’iniziale disegno delle Procure distrettuali antimafia istituendo una competenza distrettuale anche per i tribunali, in questo clima finiscono fraintese se l’evocazione dei «giudici di provincia che con tutto il rispetto non sanno nulla», fatta in un convegno dal capo dell’antimafia milanese, rischia di dare corpo all’idea che, nella necessaria precomprensione del fenomeno mafioso, possano esistere giudici di «serie A» e di «serie B». Suggestione che, nel civile, fa capolino anche nei progetti governativi di centralizzare solo a Milano-Roma-Napoli le cause delle imprese estere.
E invece, soprattutto a garanzia dei cittadini (come l’altro ieri gli ex manager di Fastweb e Telecom Sparkle assolti per non aver commesso il fatto per il quale erano stati arrestati), c’è bisogno di non aver paura di «più» giurisdizione: di giudici che, ovunque e non solo nei picchi di élite, siano più preparati e più capaci di reggere le pressioni, vengano esse dai potenti come dai condizionamenti interni alla categoria o dalle aspettative dell’opinione pubblica.