Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 19/10/2013, 19 ottobre 2013
LA RESISTENZA IN PRESA DIRETTA
È il primo romanzo della Resistenza, scritto in presa diretta durante gli eventi della guerra civile e uscito il 31 ottobre 1944 presso la tipografia luganese di Natale Mazzucconi. Titolo: I compagni di settembre . L’autore che figurava in copertina, Tullio Righi, era in realtà lo pseudonimo di Alberto Vigevani. «Un poeta che ha scritto romanzi», come suggerì Lalla Romano. Si tratta del suo secondo romanzo, perché un anno prima il venticinquenne Vigevani aveva già pubblicato per l’editore Parenti di Firenze Erba d’infanzia . Ora quel testo dimenticato, che un mese dopo l’uscita ottenne il premio Ghilda del Libro presieduto da Ignazio Silone, viene riproposto dalle edizioni milanesi Endemunde e merita, sia sul piano storico sia sul piano letterario, l’attenzione che si deve alle autentiche scoperte.
Nel 1940 Vigevani vorrebbe emigrare negli Stati Uniti con la moglie, ma il viaggio già programmato svanisce quando l’Italia entra in guerra. Come scrive nella nota introduttiva il figlio Marco, saranno comunque, per Vigevani, anni di grande fermento intellettuale: nel ’41 l’apertura a Milano della libreria antiquaria Il Polifilo, poi i numerosi viaggi che lo portano al caffè delle Giubbe rosse di Firenze, dove frequenta il mondo letterario più vivace del tempo, da Montale a Gadda, da Bonsanti a Carlo Levi. Con l’8 settembre la famiglia, nato da poco il piccolo Paolo, si trasferisce sul confine elvetico, a Lanzo d’Intelvi, da cui il 13 riesce avventurosamente a oltrepassare la frontiera e a raggiungere Arogno, in Ticino. Un viaggio che, avverte Marco Fumagalli nella postfazione, è presente «nel percorso interiore del protagonista del romanzo: quello di un giovane borghese, poco avvezzo alle armi e ai rischi di una guerra spietata, che sceglie di opporsi all’ingiustizia e all’oppressione totalitaria». In esilio, dopo due mesi di internamento, Vigevani non ha difficoltà a frequentare l’ambiente intellettuale (rifugiati compresi) e a collaborare sotto diversi pseudonimi ai giornali locali, arrivando a dirigere, dal novembre 1944 all’aprile 1945, la sezione culturale del quotidiano socialista «Libera Stampa», dove offre ospitalità all’élite della cultura italiana in Svizzera: Gianfranco Contini, Luigi Comencini, Giansiro Ferrata, Nelo Risi, Fabio Carpi, Franco Fortini, Giorgio Strehler, Ernesto Treccani e altri.
Pubblicato in italiano e in tedesco, il romanzo inaugura il filone della letteratura partigiana, precedendo Uomini e no di Vittorini, che esce l’anno dopo. La scelta di schermarsi dietro uno pseudonimo è suggerita dal timore di mettere in pericolo il fratello Giorgio, membro del Pci clandestino e comandante di una brigata Garibaldi nell’Oltrepò Pavese. Ma c’è anche un’altra evidente preoccupazione: il nome di Alberto Vigevani in copertina potrebbe autorizzare il lettore a interpretare la vicenda narrata ne I compagni di settembre come un racconto autobiografico. Forse sarà questa la ragione per cui Vigevani non vorrà mai ripubblicare in vita il suo romanzo resistenziale: una sorta di senso di colpa per aver evitato l’impegno armato, lo stesso che serpeggia nelle parole di alcuni personaggi quando alludono alla possibilità di lasciare la clandestinità in montagna per cercare rifugio oltreconfine.
Si diceva che il valore del romanzo non risiede soltanto nel suo primato storico, ma anche nella sua qualità letteraria. All’indomani dell’uscita, Fortini sottolineò la capacità di Vigevani nel raccontare «l’aria, il tono e la passione di quelle giornate di settembre tremende» e individuò il meglio del libro nel «grumo della espressione accartocciata». La trama è presto detta. Nei giorni dell’armistizio, l’io narrante, il giovane pittore antifascista Filippo Giorni — che ha alle spalle diversi mesi di carcere e anni di pedinamenti — ha lasciato a Milano la moglie e il piccolo Andrea, appena nato, per darsi alla vita clandestina in Val d’Intelvi. Lì si unisce a un piccolo gruppo di combattenti partigiani. Vigevani regala al suo protagonista da combattente lo stesso pseudonimo che ha scelto per sé: Tullio Righi. Lo vediamo una sera in una locanda di San Fedele, in cerca di agganci e di compagni. Atmosfere di paese, giocatori di carte, radio accesa tra fumo di toscani e profumo di salsa al pomodoro. Gli interni sono descritti con levità. Vedremo Filippo e i pochi altri compagni risalire la valle, verso Lanzo, attraverso strade, sentieri, boschi, sterpaglie, baite di fortuna.
I personaggi che Filippo-Tullio incontra nel suo cammino hanno caratteri fisici tratteggiati con precisione: il «giovane bruno dalla pelle olivastra, vestito decentemente, con lo sguardo da meridionale» è Mario, il suo primo compagno, un ex meccanico dell’Alfa Romeo. A Mario si aggiungeranno, via via, Bruno, Biagio e un amico taciturno. Non di più. Avranno zaini pieni di pane, formaggio e salame, scarponi e mantelli, soprattutto avranno fucili e pistole, che sanno usare così bene da metter paura ai tedeschi. Siamo, ovviamente, nella temperie stilistica del neorealismo, con qualche flashback memoriale del pittore che ricorda la sua vita parigina, con dialoghi secchi e ben ritmati, con una tessitura narrativa dalle vaghe coloriture regionali. Ma soprattutto con bellissime aperture paesaggistiche, spesso cariche di non banale lirismo: «I boschi scendevano neri e solenni dal monte, mentre la valle pareva un mare di luna e di pulviscolo».
Niente retorica, ma ci sono i sogni dei partigiani che «hanno buttato tutto dietro le spalle», il coraggio, le paure, le attese e gli incubi, le allucinazioni delle notti passate di guardia in solitudine sotto il cielo nero, le diserzioni e i tradimenti. Ci sono le imboscate e c’è il sangue che scorre dall’una e dall’altra parte con le flebili speranze di salvare il Paese e pochi eroismi. Quando un compagno viene ucciso nella valle, sotto un temporale scrosciante, la piccola pattuglia, accerchiata dai tedeschi, decide di avventurarsi verso il confine, trascinandosi dietro Mario ferito, nel buio e nella burrasca. Vomitando, piangendo, digrignando i denti, si ritroveranno finalmente in Svizzera. Sconfitti e umiliati dal senso di colpa.