Marco Missiroli, Corriere della Sera 19/10/2013, 19 ottobre 2013
L’EROE MITE E DIGNITOSO DI MALAMUD, LO SCRITTORE CHE AMAVA CHARLOT
Appena Bernard Malamud seppe di aver vinto il National Book Award si mise in strada e passeggiò a lungo. Camminò per le vie che conosceva e proseguì per alcuni isolati sperduti, quando sentì di essere stanco si addentrò in un parco pubblico. Si sedette su una panchina, era quasi sera, e ci pensò su. Non rifletté sulle conseguenze del premio letterario più importante d’America, gli venne in mente la madre. Era morta giovane lasciandolo solo con il padre, un droghiere gentile di Brooklyn con la devozione per la famiglia. La madre e il padre: festeggiò così lo scrittore ebreo più importante e discreto degli Stati Uniti. Era il 1959 e lui aveva quarantacinque anni, un’esistenza alle spalle di mezza orfananza che gli aveva portato dozzine di mestieri, dalla fabbrica ai negozi alimentari, fino al concepimento di un romanzo capolavoro: Il commesso .
Lo aveva pubblicato due anni prima, l’effetto che generò fu lo stesso che si avvera nelle scorribande tra ragazzini, quando il più fragile della compagnia compie un’impresa inaspettata. E produce sgomento. Così il narratore che veniva dalla tetra Brooklyn divenne il maestro indiscusso di un giovane Philip Roth e il collega a cui guardare con ammirazione, il riferimento è a Saul Bellow. L’intero mondo letterario seppe che la potenza di Malamud covava nella semplicità, e nell’onestà. Per lo sguardo e per la scrittura. Per l’azzardo di restare nella modestia degli uomini.
Il commesso è questo, racconta la storia di Morris Bober, un piccolo negoziante ebreo che si trova in difficoltà per l’apertura nella stessa via di un’altra drogheria e di un negozio di liquori. Gli affari calano, la miseria arriva. Crescono le opportunità di farla franca in altre maniere. Morris non cede, si arrocca nella sua rettitudine e si consuma nello sforzo. Finché un ragazzo di origine italiana, Frank Alpine, si offre di aiutarlo senza compenso per imparare il lavoro sul campo. Morris tentenna, poi accetta perché la salute inizia a mancargli e perché vuole assicurare un futuro alla figlia e alla moglie. È la scelta che avvia la missione di ogni personaggio, umiliando le illusioni religiose, esaltando le certezze etiche.
Destino, sacralità, morale. La cattedrale di Bernard Malamud scardina i miraggi quotidiani con una storia che è il punto massimo nella lotta tra un omino giusto e un Dio impietoso. «Sgobbava per ore e ore, era l’onestà fatta a persona – non poteva sfuggire alla propria onestà, era la sua palla al piede; sarebbe scoppiato se avesse imbrogliato qualcuno, eppure si fidava degli imbroglioni. Era Morris Bober e non poteva avere una sorte migliore. Con un nome così era come se il non possedere ce l’avessi nel sangue». Nella storia yiddish un bober indica una persona o una cosa che vale poco. Un’ombra nell’ombra. Invece qualcosa resiste: la dignità. Morris Bober non la perde mai. E quando sta per farlo la ritrova nelle origini. Nella madre e nel padre, appunto. Ancora meglio, nell’infanzia. «Morris era pieno di malinconia e passava delle ore a sognare del suo passato. Ricordava quelle verdi distese. L’uomo non dimentica mai i luoghi in cui correva da bambino».
Malamud ricordò sempre quell’infanzia, soprattutto l’episodio che lo aveva cambiato. Aveva poco più di dieci anni e il padre gli regalò un’intera enciclopedia, The Book of Knowledge , come premio per essere sopravvissuto a una feroce polmonite. Era la prima volta che un libro entrava in casa. Quando il ragazzino si vide davanti la sfilza di volumi, capì che il mondo non era solo fatto di merce da vendere, di una naturale cortesia verso i clienti o di gare tra coetanei nel quartiere. C’era dell’altro, e andava esplorato. Lo aiutarono dei buoni insegnanti al liceo e un’innata propensione a raccontare qualsiasi vicenda nei minimi particolari. Da sempre il piccolo Bernard assillava chiunque per una descrizione minuziosa dell’ultimo film visto. Era la vera passione malamudiana: i film, e soprattutto Charlie Chaplin.
Molto tempo dopo quel battesimo culturale, lo scrittore di Brooklyn ammise che il tocco amaro dei suoi libri e la gentilezza della sua prosa venivano proprio da Charlot. Anche il modo di pensare per immagini era in debito con quell’alfabeto. Così il suo Morris Bober diventa un Chaplin quotidiano, mesto e acuto, rancoroso, timido. L’amaro del negoziante sopravvive nei gesti accorti, si avvera nella propensione al bene. Lungi da ogni sentimentalismo, Il commesso dà fiato alla discrezione del cuore. È lo stesso pudore narrativo che Malamud insegnò nei corsi di scrittura per quaranta anni. «Si impara da ciò che si insegna, e si impara da quelli a cui si è insegnato», disse a Daniel Stern in una delle poche interviste rilasciate. Non lo dimenticò mai, con questa missione continuò a trasmettere il mestiere del narratore finché riuscì. Era un modo per incontrare sensibilità formidabili («Imbattersi in un gruppo di lettori veramente seri è qualcosa di miracoloso»), e per viaggiare.
Malamud perlustrò in lungo e in largo il continente americano e l’Europa, amava moltissimo l’Italia. Per un po’ visse a Roma e non è un caso che Frank Alpine sia di origine italiana. Ogni suo personaggio in un modo o in un altro rimane esule, è l’omaggio ai genitori immigrati dalla Russia. Anche Morris Bober ha la stessa ferita, non territoriale ma di alienazione. La minaccia viene dallo straniero: due norvegesi aprono un alimentari nella stessa via, sanno usare la pubblicità e vendono prodotti di qualità superiore. La strada che l’ha protetto ora è confine di guerra. Così Malamud trasforma il calore del luogo di nascita in ghiaccio. Anche il clima segue il suo disegno, la neve è l’unica traccia del Dio scorbutico. Nevica nel momento sbagliato: quando c’è di mezzo il riscatto finale di un uomo. «La neve di primavera commuoveva Morris profondamente. La guardava cadere, scorgendovi scene della sua fanciullezza, ricordando cose che pensava di aver dimenticato. Provò un desiderio irresistibile di trovarsi fuori, all’aperto». Morris Bober rispetta il suo vangelo. Va, esce. Sfida il cielo. E compie il suo destino.
Malamud combatté per tutta la vita con l’incertezza di saper scrivere un libro. Più diventava celebre, maggiore era l’ansia di non riuscire a creare una storia. Lo diceva anche ai suoi studenti: «Convivete con l’insicurezza e osate». Lui osò sempre, e ogni volta tornava a trovarlo la paura di fallire. Forse fu proprio il suo timore atavico a condurlo in strada quel pomeriggio di vittoria del National Book Award. A convincerlo a passeggiare oltre le strade conosciute, a metterlo seduto sulla panchina di un parco pubblico. A fargli scansare un pensiero di gloria, a favore della madre e del padre. E a riportarlo a scrivere, per altri venticinque anni, narrazioni formidabili.
Ribadì la sua esitazione sempre. Tranne a Daniel Stern, quando gli chiese se esistesse nel mondo la possibilità di non raccontare più storie. Prima di rispondere, Malamud aspettò un istante, poi disse: «Questo succederà quando la gente non farà più sesso».