Marta Serafini, Corriere della Sera 19/10/2013, 19 ottobre 2013
COME RACCONTARE SE STESSI (IN BREVE)
Oltre a Hillary Clinton (sopra, nel disegno) ci sono altri personaggi famosi o organizzazioni che vantano bio perfette in 160 caratteri. Tra questi, Naomi Klein . Il suo profilo recita: «They say I’m polarizing» (letteralmente «dicono di me che contrappongo»). Sintentico e ironico, usa l’espediente di farsi definire da altri. Jack Dorsey è «Presidente di Twitter, ad di Square, fondatore di entrambi». La sua bio è molto asciutta ma Dorsey può permetterselo dato che gioca in casa. Bello anche l’account di Wikileaks («We open Governments. Everywhere»). Ironica Rania di Giordania che si definisce «A mum and a wife with a really cool day job...» (mamma e moglie con un lavoro diurno molto cool). Per l’Italia vince Massimo Mantellini che con la sua «verità al di qua dei Pirenei» colpisce nel segno. (m.ser)
Quella di Hillary Clinton è un capolavoro, siamo tutti d’accordo. «Moglie, mamma, avvocato, paladina di donne e bambini, first lady dell’Arkansas, first lady degli Stati Uniti, senatrice Usa, Segretaria di Stato, autrice, proprietaria di cani, icona della messa in piega, appassionata di tailleur pantalone, demolitrice di barriere di genere, ancora da definire». È ironica, completa, graffiante, incalzante e pure femminista, nel senso contemporaneo del termine. Dicono che sia il suo biglietto da visita per la Casa Bianca. Dicono. Quello che è certo è che comporre una biografia memorabile su Twitter non è per nulla facile. Soprattutto se non si è Hillary Clinton, non si è vissuti qualche anno al 1.600 di Pennsylvania Avenue e non si è passati indenni dal tradimento più chiacchierato della storia.
Sia quel che sia, 160 caratteri sono davvero pochi, scrivere di sé è uno degli esercizi più difficili che esistano. Uno inizia, mette giù due parole, e lo spazio è già terminato. Poi c’è il problema dell’originalità: non si può essere ingessati su Twitter e non si può nemmeno essere autoreferenziali, soprattutto se lo scopo è raccogliere follower e interagire con un numero di utenti più alto possibile. Come risolvere allora l’arduo dilemma?
In realtà non esistono regole per la biografia di Twitter. C’è chi si descrive con brevi dati anagrafici, che fa molto carta di identità o lapide tombale. Poi c’è chi punta sugli hobby e le passioni. Non è raro leggere «cuoca e ballerina provetta», «runner e apripista», «violinista e mangiatore di caramelle». Ma il sospetto è che questi utenti stiano lì su Twitter solo per fare la ruota come i pavoni. Così non viene molta voglia di seguirli. Al 90 per cento del pianeta piace cucinare e non fanno schifo i dolci: che cosa quindi abbiano da dirci di incredibile questi signori, rimane un mistero. Poi c’è chi va dritto al punto e si gioca la carta del lavoro. Per questa tipologia sappiamo già a cosa andiamo incontro. Sarebbe bello però che Twitter in Italia fosse popolato da più categorie professionali e che a popolarlo non ci fossero solo giornalisti e social media editor . Variare aumenta le prospettive. Ma giustamente, un idraulico o un insegnante hanno di meglio da fare che cinguettare. Quindi bisogna rassegnarsi: il 70 per cento delle biografie italiane in 160 caratteri appartiene a chi scrive per professione. Personaggi evidentemente bisognosi di attenzione e dall’ego fragile. (Compatiteci, abbiamo le nostre debolezze).
Altra categoria è quella dei bimbiminkia (ragazzini), c’è chi nella bio indica cose simpatiche, chi vorrebbe fare lo spiritoso e non ci riesce. Ma sappiano che esistono fantastici generatori di biografie automatiche (uno su tutti http://twitterbiogenerator.com/ ), quindi non si illudano di essere così originali. Basta un clic e il computer ci definisce «entusiasti sostenitori dell’alcool, fanatici dei social media, sottilmente affascinanti evangelizzatori di birra e imprenditori amatoriali». E soprattutto «Twitter ninja». Attenzione poi alla categoria degli «addicted», sono «dipendenti» da tutto: scarpe, oggetti strani, cibo spazzatura e gattini. Ma se uno ha dei seri problemi di dipendenza forse è meglio che si faccia curare invece che scriverlo su Twitter.
Non mancano poi quelli convinti di essere molto importanti, anche se non lo sono. In genere nelle loro bio vengono elencati premi per lo più sconosciuti. «Ho vinto il premio Pofferbacco 2012» e «sono arrivato primo alle olimpiadi di matematica della mia scuola» non sono bei biglietti da visita. Vuoi mettere «I’m a Ceo, bitch » di Mark Zuckerberg («sono un amministratore delegato, str..»)?
Da evitare come la peste millantare competenze inesistenti del tipo «profondo conoscitore dell’arte». E non va meglio con chi mette subito in chiaro di essere alla ricerca di avventure sessuali. L’elenco di misure dei propri organi e delle proprie velleità fisiche sa tanto di profilo falso a caccia di clic tossici. Da biasimare anche chi non si scrive da solo due righe di presentazione, tanto c’è lo schiavo sottopagato che lo fa per lui. Far ricadere sulle spalle altrui un compito così gravoso non è per nulla carino.
Consola però sapere che secondo il New York Times la bio di Twitter stia diventando una nuova forma di arte postmoderna. Spingersi a riconoscerla come nuovo genere letterario è un po’ troppo: il quotidiano americano la definisce «un’opportunità di riassumere se stessi in senso sia personale che professionale». Un bell’esercizio per tutti: famosi e non. Forse allora vale la pena provarci, consapevoli che il risultato è sempre perfettibile.
E se di regole non ne esistono forse può aiutare sapere che lo scrittore americano Alex Blagg consiglia di scrivere 10 parole e aggettivi che ci descrivono e poi di cercare una sintesi. Con una postilla: fa molto «giovane» aggiungere gir l (ragazza) o guy (ragazzo) alla fine a fianco del proprio settore lavorativo (ad esempio, Data Entry Guy or Marketing Girl). L’alternativa? Iniziare a vivere con un solo obiettivo. Diventare Hillary Clinton. Poi scrivere la biografia di Twitter sarà facile come bere un bicchiere d’acqua.