Maria Laura Rodotà, Corriere della Sera 19/10/2013, 19 ottobre 2013
QUEGLI ISTITUTI D’ÉLITE CHE DANNEGGIANO CHI NON È «GENIO»
Antefatto. Mercoledì mattina, ore 10.30, corridoio del liceo X, in attesa dei colloqui coi professori. Due tardone si abbracciano. Elena: «Ma che bello rivederti! Non sapevo avessi anche tu un figlio qui. In che sezione sta?». Io: «Figlia. Sta nella sezione Y». Elena: «Oddioooooooooooo».
Svolgimento. Questo articolo è stato scritto in ritardo per via di dialoghi, e di pensieri, come questo. Avere un figlio/a nella sezione più tosta del liceo più impegnativo non è uno sport per signorine. Leggere uno dei tuoi saggisti preferiti che ti spiega come tu e la tua prole abbiate fatto una fesseria, e come la prole, brillante ma non incline allo studio matto e disperatissimo, avrebbe tratto vantaggi assai maggiori iscrivendosi in un istituto più facile, è devastante. Per fortuna molti dissentono da Malcolm Gladwell, ma tant’è.
Gladwell è un giornalista del New Yorker autore di bestseller in cui addomestica psicologia comportamentale e neuroscienze e marketing; e cerca di raccontarci come vivere, commerciare, realizzare noi stessi. È autore di «The Tipping Point», «Outliers», «Blink»; e ora di «David and Goliath», appena uscito negli Stati Uniti, acquistabile online, deprimente per chiunque abbia insistito e patito in istituti superiori di un certo livello senza essere studiosissimo/a. Il libro è sulle varie chances di Davide nei confronti dei molti Golia; il che va bene a prescindere, anche come lettura consolatoria quando non escapista. Quando però, nel capitolo «Caroline Sacks», affronta il tema «quanto vale studiare in un’istituzione prestigiosa», il genitore o lo studente ansioso non sanno se credergli o considerare con perplessità l’intero libro.
La premessa fa sognare. Gladwell parte dal Salon des Refusés, la mostra dei pittori innovativi (Impressionisti, si chiamavano) scartati dal Salon ufficiale. «Raramente», scrive Gladwell, «noi ci fermiamo e ci chiediamo — come fecero gli Impressionisti — se l’istituzione più prestigiosa farà meglio il nostro interesse». E snocciola, gladwellianamente, ricerche che è bravissimo a trovare e che poi vengono copiate dagli altri giornalisti e pian piano diventano luoghi comuni. Come quella secondo la quale i ricercatori laureati bene in colleges di secondo piano pubblicano molto di più sulle riviste scientifiche dei colleghi laureati così-così in grandi università. E racconta la triste storia di Caroline Sacks (il nome è fittizio), studentessa di high school col massimo dei voti, ammessa in molti colleges. Finita alla Brown, università dell’Ivy League, sempre classificata tra le migliori d’America. Praticamente, sostiene Gladwell, come un Salon ufficiale. E — prosegue — in casi come quello di Caroline, sarebbe stato meglio essere «un pesce grosso in un piccolo stagno che un pesce piccolo in un grande stagno».
Brown era impegnativa e competitiva, con tanti ex geni delle loro high school in lotta tra loro. Travolta da un corso di chimica organica, Caroline era stata colta da «deprivazione relativa»; si era depressa in mezzo a colleghi eccellentissimi, perché «più una scuola è d’élite, più gli studenti si sentono insicuri sulle loro capacità accademiche»; e «studenti che sarebbero primi in una buona scuola possono facilmente essere ultimi in una scuola molto buona». Ed era finita a studiare materie umanistiche che la interessavano poco e offrivano pochi sbocchi occupazionali. Se avesse accettato di andare alla più facile University of Maryland, argomenta Gladwell, sarebbe diventata una scienziata.
D’altra parte, ha obiettato Lucy Kellaway sul Financial Times , «Gladwell — diplomato alla Toronto University — tace sui magici effetti delle reti di rapporti creati dalle istituzioni di élite. Che dire delle porte che si aprono al solo nominare Harvard?». O delle porte che si chiudono — anche da noi — se sul curriculum compare il nome di un’ateneo così-così, pubblico o anche costoso e privato?
Quella di Gladwell è una bella narrazione, le sue tesi fanno discutere e in Italia vanno riconfigurate. Tenendo conto che i colleges sono super-licei, e l’equivalente italiano sono proprio i licei. Dove — in quelli di prestigio, pubblici e privati, più spesso pubblici — può succedere quel che succede nel suo libro; ma capita anche che ragazzi bravi abbiano una chance. Oppure che si creino dei network, già da ragazzini, più o meno utili, più o meno inciucisti, e poi c’è poco da essere Davide, al solito, da noi.