Sergio Romano, Corriere della Sera 19/10/2013, 19 ottobre 2013
SANZIONI LE FUNZIONANO MA TOGLIERLE DIFFICILE È PIÙ
Nelle intenzioni degli Stati che fondarono a Versailles, dopo la Grande guerra, la Società delle Nazioni, il castigo economico avrebbe sostituito, almeno in una fase iniziale, la punizione militare. Prima di ricorrere alle armi contro uno Stato «canaglia», i membri della Società avrebbero potuto boicottare le sue esportazioni, privarlo delle importazioni necessarie alla sua economia e alle sue forze armate, congelare i suoi fondi depositati in banche straniere, vietare i viaggi all’estero dei suoi banchieri e uomini d’affari. È questo lo spirito con cui furono adottate all’Onu contro l’Iran sotto la spinta degli Stati Uniti e di altre potenze occidentali. Ed è questa la ragione per cui la Casa Bianca si chiede se e fino a che punto siano ancora opportune dopo l’inizio dei negoziati.
SEGUE DALLA PRIMA Le sanzioni sono la versione moderna dell’assedio. Se non è possibile o consigliabile piegare il nemico con le armi, occorre affamarlo, impoverirlo, ridurre il suo potenziale militare, costringerlo a modificare la sua linea politica.
Ma uno sguardo d’insieme alle sanzioni adottate dalla comunità internazionale nel corso degli ultimi ottant’anni dimostra che lo strumento si maneggia con grande difficoltà e produce spesso risultati contraddittori. Non tutti i Paesi, anzitutto, sono disposti a sottoscrivere misure che potrebbero ritorcersi sulla loro economia o danneggiare la loro politica estera.
La sanzioni decise contro l’Italia, dopo l’aggressione all’Etiopia nell’ottobre 1935, sarebbero state molto efficaci se la Gran Bretagna avesse negato al corpo di spedizione italiano (circa 400.000 uomini) l’uso del Canale di Suez e se gli Stati Uniti (che non erano membri della Società delle Nazioni) avessero interrotto le loro esportazioni di petrolio all’Italia.
Ma gli inglesi, in quel momento, non volevano spingere la provocazione sino al rischio di un conflitto e gli americani non volevano prendere troppo scopertamente partito in una questione che interessava prevalentemente gli imperi coloniali europei.
Anziché paralizzare l’Italia, le sanzioni fornirono a Mussolini una straordinaria arma di propaganda. Niente giovò al regime, in quella occasione, quanto il sentimento d’indignazione che la decisione della Società delle Nazioni suscitò in una larga parte della società italiana. Non è tutto. Fino al 1935 Mussolini aveva cercato di creare un fronte europeo contro il pericolo rappresentato dal revanscismo della Germania di Hitler. Dopo le sanzioni decretate dagli alleati della Grande guerra e l’aiuto che la Germania dette con le proprie esportazioni alla campagna militare in Africa orientale, l’Europa assistette al rapido miglioramento dei rapporti italo-tedeschi.
In altri casi, invece, le sanzioni sembrano avere prodotto l’effetto desiderato. Quando F. W. de Klerk divenne presidente del Sudafrica, nel 1989, e soprattutto quando decise, un anno dopo, la liberazione di Nelson Mandela, molti videro nella svolta del governo sudafricano e nella fine dell’apartheid il trionfo del boicottaggio economico e culturale che era stato più volte invocato e proclamato dall’Assemblea dell’Onu negli anni precedenti. Ma non è facile mettere le manette ai polsi di un Paese che era allora, insieme all’Unione Sovietica, uno dei maggiori produttori d’oro del pianeta. Per ragioni economiche e strategiche non tutti gli Stati rinunciarono a fare affari con le aziende sudafricane e con il governo di Pretoria.
A me sembrò che la principale ragione della svolta di de Klerk fosse il fallimento di un sistema fondato sulla completa segregazione della maggioranza degli abitanti del Paese. Quando si accorsero che il progetto, oltre a suscitare le critiche dell’opinione pubblica internazionale, continuava a scontrarsi con l’incrollabile resistenza dell’African National Congress, il nuovo presidente sudafricano decise che il Paese non aveva di fronte a sé altra soluzione fuor che quella del suffragio universale per tutti i cittadini, quale che fosse il colore della loro pelle.
La sanzioni contro l’Iraq furono adottate dall’Onu dopo l’invasione del Kuwait ed erano ancora in vigore, in buona parte, quando gli Stati Uniti invasero il Paese nella primavera del 2003. Furono le armi, quindi, non le sanzioni, che distrussero il regime di Saddam Hussein.
Lo stesso accadde nel caso della Serbia dove le misure punitive, anziché provocare il cambiamento della politica di Milosevic, crearono una economia delle sanzioni da cui trassero vantaggio, a danno della popolazione, gli affaristi del regime e le banche dell’isola di Cipro.
Nel caso della Libia, infine, non furono le sanzioni, ma i mutamenti dell’intero quadro politico mediorientale che indussero Gheddafi ad abbandonare le sue ambizioni nucleari. Fino a quel momento erano stati numerosi i Paesi che lo avevano aiutato ad aggirare il boicottaggio.
Resta il caso dell’Iran dove le sanzioni, apparentemente, hanno funzionato. La severità delle misure adottate dall’Onu e la miope caparbietà di Mahmud Ahmadinejad hanno ridotto alla povertà una delle maggiori potenze economiche del mondo e favorito, infine, l’elezione di Hassan Rouhani. Ma il fattore decisivo è stato l’esistenza nel Paese di una società giovanile che ha finalmente ottenuto nelle urne ciò che l’«onda verde» non era riuscita a conquistare nelle manifestazioni del 2009.
In ultima analisi, quindi, le sanzioni possono produrre qualche risultato soprattutto nelle società dove esiste una società civile colta, brillante, informata sulle cose del mondo, capace di esercitare una certa influenza sulla parte migliore della propria classe dirigente.
Si comprende meglio quindi il dibattito in corso a Washington sull’utilità delle sanzioni in questa fase e sul modo migliore per cominciare ad allentare la stretta. Le sanzioni sono un doppio grattacapo: nel momento in cui si applicano e nel momento in cui occorre revocarle.