Leonardo Coen, il Venerdì 18/10/2013, 18 ottobre 2013
IL PREMIER SERBO CANTA E BALLA E INTANTO BUSSA ALLE PORTE D’EUROPA
BELGRADO. Metti, una sera di inizio ottobre a cena e con sorpresa, dal primo ministro serbo Ivica Dacic, nella sua residenza belgradese: «Mi raccomando: niente cravatta, niente giacca blu. Meglio se viene in jeans. A proposito: sa cantare?».
Forse. Fa freddo. Siamo un po’ tutti raffreddati, colpa delle correnti gelide che arrivano dall’Ucraina e dalla Russia, che qui è nume tutelare, antagonista economica dell’Unione Europea, padrina dell’energia serba. Cantare? «Si, il nostro primo ministro è un bravo cantante, e si potrà fare del karaoke. Prima, però, vuol dirvi qualche cosa».
Avevo come ultimi ricordi di Belgrado quelli della guerra e dei bombardamenti e dopo, i primi anni della sconfitta. E turbofolk per colonna sonora. Più Goran Bregovic e i film di Emir Kusturica. Più nostalgia che karaoke. Politica e musica, oggi. D’altra parte, molto è cambiato da queste parti. Per esempio, le ragazze di Zagabria, la capitale dell’ex nemica Croazia appena approdata nell’Unione Europea, calano a Belgrado ogni weekend per divertirsi: «I giovani sono più carini e divertenti che da noi...». Il disgelo è confermato da un altro fenomeno: i matrimoni misti sono tornati di moda, non sono più tabù. Nel basket, idem: si è riformata la Lega Adriatica, ossia un solo campionato per le sei ex repubbliche jugoslave. Si vorrebbe fare lo stesso per il calcio. La sindrome prevalente non è più quella della Grande Serbia padrona dei Balcani, ma quella della Serbia Isolata. Circondata dalla Ue. Le resta solo il Montenegro, che però ha già intavolato da qualche anno le trattative per entrare nell’Europa.
«Preferisce un aperitivo o un bicchiere di vino rosso?». Ottimo, questo rosso barricato Aurelius 2011 delle cantine Kovacevic, un settanta per cento di Cabernet Sauvignon e un trenta di Merlot, leggermente fruttato, adatto per i piatti di carni rosse che ci hanno appena servito, e per gli altri che seguiranno. La serata si preannuncia piuttosto intensa. La residenza del primo ministro serbo è accogliente, non sfarzosa. La serata, volutamente casual: una piccola festa con nuovi amici. Il premier ha 47 anni. Il 3 settembre ha varato il nuovo governo, dopo aver gestito assieme al vice primo ministro Aleksandar Vucic un robusto rimpasto. Undici ministri nuovi. Uno di loro è Lazar Krstic, responsabile delle Finanze, che di anni ne ha appena 29: il più giovane della compagine governativa. Sfoggia una barbetta che lo fa assomigliare a un pasdaran. Parla (in inglese) con la velocità di un kalashnikhov. È pieno di idee, progetti e voglia di adottare severe misure di contenimento della spesa pubblica. Ce le espone con il cipiglio di chi vuol dimostrare che sa il fatto suo. Versione balcanica dei Chicago boys, gli economisti neoliberals che fecero il bello (e soprattutto) il cattivo tempo negli anni Novanta. Krstic non potrà essere presente a questa cena. Deve dedicarsi full time alla rekonstrukcija del bilancio.
Appena seduti a tavola, ed esauriti i convenevoli, Ivica Dacic, il capo del governo serbo, ripercorre la storia dei sacrifici del suo popolo, che non ha esitato a battersi in nome della libertà europea (la prima guerra mondiale, la lotta partigiana contro Hitler): quando è stato necessario, noi non ci siamo tirati indietro... ma questo è il passato, che nessuno ci può negare, è Storia, però ora vogliamo guardare avanti, e il futuro vuol dire Unione Europea. Attendiamo l’apertura del negoziato di adesione, speriamo fin dal prossimo gennaio. Saremo a Londra alla fine di ottobre, per mostrare la nostra nuova realtà economica. Facciamo sul serio. Sottinteso: vorremmo che la Serbia venisse trattata con rispetto.
Un sorso d’Aurelius rende tutto meno aspro e la chiacchierata di Dacic si stempera, nei toni, non nella sostanza. Col sorriso e uno sguardo in bilico tra rassegnazione e ironia, Dacic sorvola dissoluzione jugoslava, pulizie etniche e guerre balcaniche, per atterrare sulla spinosa questione del Kosovo. Volevo andarci, in questi giorni di campagna elettorale, ma le autorità kosovare me l’hanno impedito: «Se verrà negata la libertà di movimento ai politici serbi, Belgrado riterrà chiuso il dialogo con Pristina». Peccato, aggiunge, «abbiamo fatto di tutto per smorzare la tensione, abbiamo cambiato un sacco di persone all’interno del governo, ma evidentemente questo non basta per Pristina... Eppure, vi assicuro, la nostra politica è disegnata per ripristinare i rapporti col Kosovo. Non è facile, per il nostro popolo, accettare questa situazione».
Già. Quando si viene a Belgrado, non bisogna mai dimenticare la mistica della «gloriosa sconfitta» che pervade la storia serba. Non a caso Dacic l’ha presa alla larga, ricordando i sacrifici del suo popolo. Come nel giorno di San Vito dell’anno di disgrazia nazionale 1389, quando proprio nella piana di Kosovo Polje l’esercito cristiano guidato dal principe serbo Lazar Hrebelianovic venne sbaragliato dagli ottomani del sultano Murad I. Una disfatta eroica. Usata come pretesto storico da Slobodan Milosevic per normalizzare le rivendicazioni dei kosovari albanesi, facendo ricorso ai servigi del bieco Arkan, e delle sue bande di assassini.
Oggi la ferita dolorosa del Kosovo si sta faticosamente rimarginando, anche se l’Unione Europea è costretta di tanto in tanto a ricomporre i dissidi e a sventare le crisi diplomatiche tra serbi e kosovari. I primi, più che i secondi, stanno metabolizzando lo stato dello cose. La politica della normalizzazione è ritenuta indispensabile, se Belgrado vuole diventare membro della Ue. Per questo Dacic si affretta a sottolineare che gli ultranazionalisti serbi non contano più granché, sono una minoranza senza più potere. E tuttavia, nazionalismo, orgoglio patriottico e fratellanza serba sono pilastri culturali difficili da smantellare. Il percorso che porta la Serbia a Bruxelles è irto di difficoltà, e questo il premier lo sa bene. «Stiamo lavorando molto per quest’integrazione» spiega, «a cominciare dalla lotta contro la corruzione, contro la cosiddetta grey economy (il nostro nero) che conta per oltre il 30 per cento del Pil; e contro l’eccesso di burocrazia. E intendiamo rallentare ed annullare il debito pubblico».
A Belgrado, si sa quando comincia una cena, mai quando si smette. Un po’ come i politici di queste parti. Nemmeno i bombardamenti degli americani impedivano il rito delle straripanti tavolate, al tempo in cui i serbi erano i cattivi dei Balcani. Sfidavano i bombardieri Usa, indossavano T-shirts «bersaglio», ostentavano audacia e coraggio, svilupparono un umorismo nero per compensare la frustrazione e il fato dell’ineluttabile resa dei conti. Belgrado ora vuole rimuovere i pregiudizi nei confronti della Serbia. Oh, sia chiaro: non dimenticare, i serbi celebrano le sconfitte come fossero vittorie. Vogliono tornare ad essere «centrali» nel cuore dell’Europa balcanica. L’ingresso nella Ue è «una priorità», per questo la coalizione di governo (radicali e socialisti hanno deciso di imporre una politica ferrea per lottare contro la disoccupazione, al 22,4 per cento, e contro l’instabilità sociale) sta sensibilizzando il core business del Paese e quello dei potenziali investitori stranieri. Da questo punto di vista, la Serbia è una mecca: costo del lavoro molto basso (da un terzo a un quarto della Ue), incentivi cospicui (da 4 a 10 mila euro per posto di lavoro creato), tasse al 20 per cento, energia a buon mercato, nuove misure economiche, una cultura industriale radicata, uno dei livelli d’istruzione universitaria più elevati del mondo: Microsoft l’ha capito al volo e qui ha fondato un Centro di Sviluppo (dal settembre del 2005) dove un nucleo di talentuosi ingegneri e matematici hanno sviluppato alcuni dei software più avanzati, come il riconoscimento dell’impronta digitale per i tablet. Insomma, la Serbia ha prospettive assai interessanti. Fiat, qui, è egemone, ha investito oltre un miliardo di euro, impiega oltre mille persone e produce, tra l’altro, la nuovissima 500 L extralarge, destinata al mercato americano. Una fruttuosa joint venture in cui lo Stato serbo è presente con il 33 per cento delle azioni. Del resto, la presenza italiana in Serbia è notevole: 550 aziende. Il profilo economico italiano è atipico, rispetto ad altre realtà: prevale infetti la figura dell’investitore diretto, favorita anche dalla manodopera relativamente specializzata, come mi spiega Giovanni Mafodda, direttore dell’Ice di Belgrado: «La Serbia si propone come hub produttivo che offre incentivi veri e molto vantaggiosi». Noi italiani siamo i partner più importanti.
Arriva una prosperosa bruna, è Danja, la cantante amica del nostro ospite, l’accompagna un musicista che sistema la tastiera in fondo alla sala. Ivica Dacic l’accoglie con un caloroso abbraccio, le sussurra qualcosa – chiaro, le indica la scaletta musicale. Di tanto in tanto fioccano brindisi zdravica za premier! Finisce l’ufficialità della politica. Irrompe lo stravagante Ivan Tasovac, ministro della Cultura e dell’informazione, grande musicista (direttore della Filarmonica di Belgrado) e intrattenitore, simpatico e travolgente. Montatura degli occhiali verde, braccialini, look british off, scarmigliato. Dacic lo invita a cantare e suonare, lui dice che è venuto ad ascoltare. E Dacic comincia il suo show. Un repertorio vasto, internazionale. Da Oci Ciornye a Santa Lucia. Struggente, l’interpretazione di Lipe Cvatu (i tigli stan fiorendo), una delle canzoni più popolari del gruppo Bijelo Dugme. Le parole, bellissime, sono di Goran Bregovic. Se Dacic governa come canta, la svolta è epocale. Entra una splendida bionda. Alta, spalle da Pellegrini, abbronzatura California, abito nero. Si chiama Marija Bubanj-Karasi. È appena arrivata da Roma, dove ha incontrato funzionari di polizia italiani. Si occupa di lotta alla criminalità organizzata. Ha appena sventato un traffico di cocaina. Parla benissimo italiano, ancor meglio l’inglese. Diventa protagonista della serata. La vigorosa presenza è mitigata da una voce dolcissima. Sa modularla come una professionista. Canta e incanta.
In fondo, era questo lo scopo della serata. La Serbia bussa alle nostre porte. Dacic ci chiede di aiutarlo ad entrare. Marija è come se fosse dentro già da tempo.
Leonardo Coen