Giuliano Aluffi, il Venerdì 18/10/2013, 18 ottobre 2013
IN FONDO IN FONDO SIAMO TUTTI NERI
Le razze umane non esistono e il colore della pelle è solo un dettaglio, ma un dettaglio importantissimo per il suo valore evolutivo: senza la grande adattabilità della nostra pelle saremmo già tutti estinti. Lo dice Nina Jablonski, antropologa e paleobiologa, docente della Pennsylvania State University e autrice del recente Living Color: the Biological and Social Meaning of Skin Color (Colore vivente: il significato biologico e sociale del colore della pelle). Il 26 ottobre Nina Jablonski parlerà della Bellezza dell’arcobaleno umano al Festival della Scienza di Genova (Palazzo Ducale, ore 21).
Perché le differenze di colore della pelle sono così importanti per la scienza?
«Sono la migliore prova degli effetti della selezione naturale sul corpo umano. Ci sono diverse altre parti del corpo adatte a darci indizi sull’evoluzione umana, come lo scheletro, ma non possiamo compararci ad altri umani con una diversa andatura bipede, perché non esistono. Invece possiamo vedere tanti tipi diversi di pigmentazione della pelle e risalire all’origine delle differenze».
Perché abbiamo la pelle di colore diverso?
«La differenza e dovuta alla quantità di eumelanina che produciamo. Più eumelanina significa un colore della pelle più scuro.
Partendo da questa constatazione, e dopo aver letto, nel 1978, uno studio che ipotizzava che la luce solare riducesse la produzione corporea di acido folico, utile alla formazione di nuove cellule, iniziai la mia indagine antropologica, che si è arricchita nel tempo con le scoperte della genetica. Oggi sappiamo che senza eumelanina ci saremmo estinti da tempo. L’eumelanina ci protegge infatti dai raggi ultravioletti, che possono danneggiare gli organismi spezzando i legami chimici delle molecole – incluse quelle dell’acido folico e del Dna – e producendo i dannosi radicali liberi. L’eumelanina non solo assorbe la radiazione ultravioletta senza spezzarsi, ma previene la formazione di radicali liberi e neutralizza quelli già formati. In Africa la variante di un gene, il gene MC1R, che permette ai melanociti della pelle di produrre grandi quantità di eumelanina fu così vantaggiosa nel migliorare la salute e il successo riproduttivo che gli individui del genere Homo dotati di questa variante hanno prevalso su quelli con la pelle più chiara, più soggetti a cancro alla pelle».
Il primo uomo moderno, l’Homo sapiens, era africano. Aveva la pelle scura?
«Sì, e si è decolorato, per così dire, espandendosi nel resto del mondo sotto la pressione evolutiva dei diversi ambienti. Il fattore chiave è stato la diversa incidenza dei raggi solari alle diverse latitudini: l’intensità dei raggi ultravioletti diminuisce molto a nord e a sud dei tropici, anche se in estate è ovunque maggiore che in inverno – e ci abbronziamo proprio perché l’eumelanina ci protegga dal sole. Ho preso la mappa dell’incidenza dei raggi ultravioletti realizzata dalla Nasa, l’ho sovrapposta a quella dei colori della pelle di 50 popolazioni umane, e ho trovato una precisa correlazione: più sono gli ultravioletti, più la pelle è scura».
Ma se l’eumelanina è così utile, perché non abbiamo tutti la pelle nera?
«Perché gli ultravioletti sono pericolosi ma servono a produrre vitamina D, importante per le ossa perché aiuta il corpo ad assorbire il calcio dal cibo. I pesci assorbono il calcio attraverso le branchie, ma gli animali che passarono dall’acqua alla terraferma dovevano trovare un altro sistema: l’adattamento che ha permesso alla pelle di produrre vitamina D sotto i raggi solari è stato uno dei più importanti dell’evoluzione. Per via dell’eumelanina, per produrre la giusta quantità di vitamina D chi ha la pelle scura ha bisogno di una quantità di raggi ultravioletti Uvb pari a sei volte quella necessaria a chi ha la pelle chiara. Cosa difficile al di fuori dalle zone tropicali, perché gran parte degli Uvb nell’atmosfera viene riflessa o distrutta da ossigeno e ozono: questi raggi arrivano sulla superficie terrestre soprattutto quando la traiettoria è più breve e diretta. I nostri antenati, usciti dall’Africa, sono diventati via via più chiari perché più si va a nord più l’eumelanina nella pelle diventa uno svantaggio».
C’è stato un solo schiarimento, o diversi?
«Da studi genetici risulta che la depigmentazione degli Europei e quella degli Asiatici derivano da geni diversi. E i Neanderthal si schiarirono per via di un altro gene ancora. La decolorazione della pelle è quindi avvenuta almeno tre volte in maniera indipendente: questo conferma la sua grande utilità evolutiva. Ed è anche un grande insegnamento contro il razzismo, perché ci mostra che il colore della pelle è una variabile indipendente dalle altre caratteristiche umane: ossia non c’è un blocco di caratteristiche fisiche che si presentano tutte insieme, come credono i razzisti e come pensava anche, sorprendentemente, Immanuel Kant, che associava queste caratteristiche fisiche ai livelli di civiltà».
Quindi il cambiamento di colore della pelle ha permesso da solo l’adattamento dell’uomo a qualsiasi latitudine?
«No, per la sopravvivenza è importante anche la cultura materiale. Per esempio insediarsi nelle regioni più a nord, povere di raggi Uvb, ha richiesto non solo la depigmentazione della pelle, ma anche lo sviluppo di utensili e tecniche di pesca, sulle coste, e di caccia ad animali come il cervo, il cui grasso è ricco di vitamina D. Poi ci sono casi come quello degli eschimesi, che non possono avere la pelle chiara come ci aspetteremmo vista la latitudine, perché devono proteggersi dai raggi Uv riflessi dal ghiaccio: hanno così un’alta capacità di abbronzarsi e per la vitamina D si affidano alla dieta».
In questa mirabile girandola evolutiva, quando è che il colore della pelle ha iniziato a diventare fonte di discriminazione?
«Siamo animali molto visivi. Quindi notiamo subito il colore della pelle, l’altezza di un individuo, la sua età apparente. Ma il modo in cui elaboriamo queste informazioni è complesso. C’è una percezione iniziale, che il cervello processa confrontandola con esperienze e giudizi precedenti («Ho già visto prima questa persona? Se sì, come è stata quell’esperienza»). Si forma così un giudizio, che è la parte finale del processo e risponde soprattutto alla domanda: «Posso fidarmi di questa persona?». Se la parte iniziale del processo è istintiva, l’ultima è guidata dalla nostra cultura o dalle nostre esperienze. Già a tre anni riconosciamo la differenza del colore della pelle, fatto istintivo, ma non la usiamo per etichettare un gruppo di persone a meno che non ci dicano che quel gruppo di persone è “differente” ( fatto culturale). Il razzismo non è un fenomeno istintivo: è stato una costruzione culturale e si è appoggiato su teologi cristiani come Origene (200 d.C.) – che per primo associò il colore scuro della pelle al concetto di peccato – soprattutto allo scopo di giustificare il colonialismo, la schiavitù e la lucrosa tratta degli schiavi».
Il fatto che a ogni colore della pelle corrisponda una «giusta» latitudine, pena scompensi fisici, non è un argomento contro le migrazioni odierne?
«Direi di no, visto che ormai la cultura, dai vestiti alle capsule di vitamina D, può ovviare alla mancanza di “sintonia” tra pelle e latitudine. Piuttosto dovremmo riflettere sul fatto che viviamo sempre di più nelle città e al chiuso e studiare questo grande cambiamento anche alla luce della nostra storia evolutiva per evitare seri problemi di salute in futuro».
Giuliano Aluffi