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 2013  ottobre 18 Venerdì calendario

LA MALA VITA


ROMA. Per due volte Federico Fellini tentò di girare La Malavita, il suo film poliziesco. Una prima volta a fine anni Settanta. Ma litigò con il produttore Renzo Rossellini, figlio d’arte. Pomo della discordia, il costo dei sogni. Fellini, per realizzare l’opera, voleva ricostruire la Roma criminale a Cinecittà. Il produttore replicò che così avrebbe bruciato un mucchio di quattrini. E saltò tutto. Una seconda volta ci provò nell’83. Il nuovo produttore, Alfredo Bini, era entusiasta. «Magnifico, splendido, superbo. Devi farlo subito. Ho già lo slogan per il lancio: 1960, Federico Fellini, La Dolce Vita; 1980, Federico Fellini. La Mala Vita. Sarà un successo mondiale». Ma all’ultimo momento Fellini si fermò. «Non è più il caso di parlarne» tagliò corto. Ricorda Gianfranco Angelucci, sceneggiatore, stretto collaboratore del regista: «Lasciò tutti ammutoliti, e nel silenzio si avvertì un fondo di amarezza». Che cosa era successo?
Intorno al «giallo del giallo mai girato» si sono interrogate le migliori menti dello showbiz italiano. Senza venirne a capo. Fellini aveva già in mano la sceneggiatura, definito tutte le sequenze, stabilito l’episodio conclusivo. Col senno di poi, si può ipotizzare che avesse in mente un epilogo stile La grande bellezza di Paolo Sorrentino, con l’atmosfera del gran finale del Caimano di Nanni Moretti.
Si sa che dietro il progetto c’era la storia vera di un poliziotto vero. Il regista lo definì «un poeta con la pistola». Oggi questo 007 in pensione ha deciso di raccontare l’odissea del film mai nato, in un libro dal titolo semplice (Il poliziotto, Castelvecchi). Lo sceneggiatore Angelucci, nella prefazione, ricostruisce le tappe della vicenda. C’è poi il Discorsetto introduttivo alla sceneggiatura, scritto da Fellini. Infine, i lunghi dialoghi tra il regista e il poliziotto, che dovevano diventare le sequenze della pellicola. Il protagonista della favola mancata si chiama Nicola Longo, tre figli (Jessy, Chiara, Gabriele), insegna Tecniche d’investigazione alla Sapienza, per le sue gesta investigative ha avuto una medaglia dal presidente Pertini e ora dirige un’agenzia privata, nel cui sito vanta una «bio» scritta dall’inviato del Tg1 Vincenzo Mollica.
Quanti ingredienti felliniani. Manca ancora, però, Tonino Guerra, l’ottimista per eccellenza, sceneggiatore preferito dal gotha del cinema italiano. Fu lui a presentare Longo a Fellini, dopo averlo intercettato a un concorso letterario. Il poliziotto, che era stato appena ferito in uno scontro a fuoco, vi partecipava con un racconto per bambini, scritto per suo figlio. Guerra volle conoscerlo meglio, ne fu sbalordito, gli consigliò di scrivere, l’investigatore si schermì («non sono uno scrittore»), lo sceneggiatore lo invitò allora a registrare, convinto delle sue doti di affabulatore. Ne uscì fuori un libro, La valle delle farfalle. Fellini lo lesse e spinse subito Rossellini ad acquistarne i diritti. Poi il litigio sui costi fece naufragare tutto.
A questo punto Fellini non molla. I diritti del libro sono ormai di Rossellini. Però si può sempre fabbricare un’altra sceneggiatura. «Hai tante storie, scriviamone di nuove» dice il regista. Così, nell’estate dell’83, Fellini e Longo (coadiuvati dallo sceneggiatore Angelucci) passano luglio e agosto nello studio del regista in Corso Italia. I due diventano amici. Fellini accetta, per la prima volta in vita sua, di salire su una moto. La sera si fa riaccompagnare con la Kawasaki Z 900 nella sua abitazione in via Margutta, lungo i tornanti del Muro Torto, o attraverso Villa Borghese, piazza di Spagna, via del Babuino. I due si confidano. Parlano della paura, del coraggio, della morte, della violenza che assedia. Diventano tanto simbiotici che Fellini accompagna il poliziotto in alcuni appostamenti. «Era grande e grosso, ma anche agilissimo. Stava accanto a me ventre per terra» ricorda Longo.
Perché Fellini si innamora della vita di un uomo d’azione? Longo era già un mito. Il primo investigatore mediatico. I giornali lo chiamano James Bond, 007, Serpico. Tomás Milián e Fabio Testi si ispireranno a lui per un paio di «eroi» del poliziottesco italiano (Milián per il maresciallo Nico Giraldi della trilogia di Corbucci, Testi per Il grande racket e La via della droga). «Ho litigato per farmi togliere il nome dai titoli di coda» racconta Longo.
Calabrese, figlio di un carabiniere (due gli insegnamenti paterni: guardati le spalle e mangia pane e cipolla, pur di non farti corrompere), campione welter di boxe, selezionino olimpionico di lotta libera per Messico ’68, nel ’71 entra nella Narcotici di Roma. Si specializza in «operazioni sotto copertura». Diventa un hippy con il chopper in piazza di Spagna. Dorme in un sacco a pelo, sotto le stelle. Nel febbraio del ’74 finisce sui giornali per essersi tuffato, all’una di notte, nel Tevere, a recuperare un pacco di droga. Lo convoca il criminologo Franco Ferracuti. Lo vogliono nel Sisde. «Avevo i capelli lunghi e mi piaceva quella vita. Mancò poco che lasciassi la polizia e diventassi un hippy sul serio».
A quel punto è diventato un vero 007. Assume l’identità di un barone siciliano decaduto. «Mi cambiò i connotati il truccatore del Teatro Sistina» ricorda. Frequenta il Piper. Diventa amico delle star per scovare i trafficanti. Cade in una trappola: una notte lo gettano in un cantiere alla Tomba di Nerone. Si riprende. All’epoca è sui 27. Anni dopo una collega gli morirà tra le braccia in un appostamento.
Un racconto, in particolare, incantò Fellini. Frank Tarallo, capo della Dea di Miami, contatta la polizia italiana. Vuole Longo in una missione che ha lo scopo di infiltrare un agente nel clan dei marsigliesi. Avvicinano un boss settantenne di Cosa Nostra, consigliori di Al Capone sin dai tempi del proibizionismo. Gli americani lo ricattano: se vuoi restare in Usa devi collaborare, altrimenti ti rispediamo in Sicilia. Il boss è costretto ad accettare. Porta gli agenti a Marsiglia, presenta a un Longo sotto falsa identità Jack Masia, uno dei capi dei leggendari marsigliesi. Trattano un carico di 60 chili di eroina pura. Appuntamento a Sanremo. Jack Masia in persona doveva passare la frontiera con la droga. Sarebbe arrivato con un tale Rivieré, un killer famoso per aver ucciso due agenti alla frontiera belga.
In un garage di Sanremo si organizza la centrale dell’intelligence. Qui arriva la comunicazione che Masia è stato bloccato alla frontiera francese. Si teme che un errore abbia fatto saltare l’operazione. Invece, si apprende, era stato Masia a forzare il blocco doganale. Inevitabile l’arresto. Longo viene avvertito dai narcos di recarsi ugualmente al Grand Hotel De Sangrè. Qui ritrova Masia, appena rilasciato, che scoppia a ridere. «Il mio era un trucco. Mi sono fatto fermare apposta per distrarli. Ma ero pulito. Intanto l’amico Rivieré è passato con la roba». Vengono portati in un sentiero di montagna, per la consegna finale e il pagamento. Longo è con Tarallo, il capo della Dea, anche lui sotto falsa identità. Il segnale per far intervenire gli altri poliziotti e accendersi una sigaretta. Longo la accende. Non arriva nessuno. «Frank, i nostri segugi ci hanno perso» dice Longo a Tarallo. E aggiunge: «Siamo fregati, tu fai fuori quelli alla mia destra, io sparo a quelli alla sinistra». Masia, intanto, portala droga in due valigie di cinghiale. «Ora pagate» intima. Tarallo sta per tirare fuori la sua 45 automatica. Longo ha un’idea: «No, caro Masia. Appetta un po’. Quanti chili sono questi? Non sono certo i 60 pattuiti». Masia ride: «Ma che bravo, ci hai azzeccato. Sono 40. Te ne sei accorto, mi piaci, devi venire a lavorare con me. Prendi pure la droga. Più tardi vengo in albergo. Ti porto il resto e voi ci pagate quanto concordato». Finirà con inseguimenti e sparatorie per le strade di Sanremo. I trafficanti vengono arrestati.
Fellini è impressionato dal modo di raccontare del poliziotto. Scrive: «Ha la consapevolezza, un po’ amara, un po’ esaltante, della sua diversità. Questo resoconto giudiziario, impersonale, non ha però mancato di accendersi là dove l’azione rivissuta lasciava trapelare l’ebbrezza del rischio, dello scontro vittorioso, da giovane fiera che si. inarca e morde».
Per descriverlo, cita agli amici un verso di Archiloco: «Bevo appoggiato ad una lancia». Fellini vedeva così il suo Nicolino: un gladiatore che si riposa dopo la lotta, solitario nel campo di battaglia.
Il regista, in quegli anni, è ossessionato dagli anni di piombo, dalla violenza, dalla spettacolarizzazione che i media iniziavano a farne. Gli sembra «un focolaio di autocombustione». Ed è impressionato da certi passaggi dei racconti di Longo: le mafie, gli spiega il poliziotto, usate «da un sistema deviato, in modo sistematico, anche in ambito eversivo»; un criminale come Danilo Abbruciati, er camaleonte della Banda della Magliana, aiutato da fughe di notizie e facili assoluzioni; l’enigma dei rapporti tra Renato Vallanzasca e la gente del cinema; l’ascesa di una banda di zingari che si chiamano Casamonica. Tutti fatti che continuano ad avere eco nelle cronache di oggi. E ancora, i giudici tentennanti, le indagini insabbiate, il «porto delle nebbie» di certe questure o uffici giudiziari. Ricorda Longo: «Alla fine mi chiedeva sempre: ma c’è davvero un Grande Vecchio? E chi è?».
Fellini, per il suo noir, non pensava a una «crime story» in senso classico. Voleva in pellicola facce, ambienti, paesaggi. Aveva scelto un finale a sorpresa. L’albergo Hilton di Roma trasfigurato in un set cinematografico, in occasione del rilascio di un sequestrato. Era la vita quotidiana che tracimava in una messa in scena. Vittime, carnefici, banditi, poliziotti, tutti diventavano complici di un reality show. Alla fine ci sarebbe stato un fuggi fuggi generale, per l’annuncio di una bomba poi disinnescata. L’episodio era tratto da un racconto del poliziotto. Il regista aveva chiesto: «Ma chi aveva messo la bomba?». Longo aveva alzato le spalle: «Mai saputo. E quando mai si sa chi mette le bombe?».
La risposta scioccò Fellini. Il film, alla fine, non si fece. Ricorda Longo: «Pranzammo insieme, dopo l’ultimo suo film, La voce della Luna. Mi disse di avere un disturbo a un’arteria. Ma voleva riprendere il nostro progetto. Dopo trovai un messaggio sulla segreteria telefonica: sei un amico leale, voglio che tu lo sappia prima che io parta». Il regista venne ricoverato. «Andai a trovarlo. Era in sedia a rotelle, con la barba lunga. Gli dissi: sei un combattente come me, non puoi arrenderti. Mi rispose: faremo il nostro film. Feci finta di crederci». Poi Fellini entrò in coma. «Mi avvertirono che se ne era andato. Giulietta Masina volle vedermi. Mi disse: Federico voleva fossi tu a mettergli in mano un rosario e la sua sciarpa rossa».
Così il poliziotto si fece largo tra la folla che si accalcava davanti al Policlinico Gemelli. C’erano già gli stagnari pronti a inchiodare la bara. Chiese di essere lasciato solo con l’amico. Ripensò ai tanti discorsi sulla paura e sulla morte, alle domande di Fellini su dove lui attingesse il coraggio. Avrai un talismano, gli aveva detto una volta. Vero, ce l’ho, disse al maestro. Era una immagine di San Michele Arcangelo. L’aveva in tasca quando era uscito vivo dal tuffo nel Tevere. Fellini aveva sorriso. Il poliziotto sistemò il rosario e la sciarpa. Poi lasciò scivolare l’immagine di San Michele tra le dita del regista. Il talismano. «Così, se incontri qualche diavolaccio, scappa via».
Piero Melati