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 2013  ottobre 18 Venerdì calendario

DELOCALIZZO MA A CASA MIA


Trent’anni anni fa era diventata celebre con la Vaporella, il primo ferro da stiro con caldaia lanciato in Italia. Oggi la Polti di Como, un piccolo colosso nel competitivo mondo degli elettrodomestici, può vantare un altro primato. È stata una delle prime aziende a riportare a casa la produzione, trasferita in Cina all’inizio degli anni Duemila. «Fra costi di spedizione, dazi doganali, tasse, scarti di lavorazione, instabilità delle valute, reclami dei clienti e l’aumento delle retribuzioni degli addetti cinesi che si è verificato di recente, ci conveniva tornare indietro», racconta Francesca Polti, 36 anni, direttore generale del gruppo.
La chiamano rilocalizzazione ed è un fenomeno ancora di nicchia, dal momento che la fuga all’estero delle imprese non si è fermata: solo negli ultimi due anni ha cancellato 32 mila posti di lavoro. Il tentativo di riscatto, però, comincia a mostrare numeri interessanti. Dal 2009 sono ormai 189 le aziende che ci hanno ripensato, rimpatriando parte delle linee produttive. Ci sono diversi marchi del tessile interessati a valorizzare al meglio il "made in Italy": la modenese Gaudì è tornata a Carpi dal Pakistan, la Bz Moda ha riaperto uno stabilimento nella Riviera del Brenta, la Svb ha lasciato la Romania per Biella. Alcune importanti realtà, poi, hanno scelto di sacrificare le fabbriche estere per attutire l’impatto della crisi su quelle italiane. Gli occhiali Safilo hanno trasferito in Veneto alcune produzioni cinesi, mentre gli yacht Azimut - che pure hanno chiuso l’impianto di Piacenza - hanno lasciato la Turchia, tornando a puntare su Avigliana, all’inizio della Valsusa. Indesit e Natuzzi, alle prese con pesanti piani di ristrutturazione riporteranno in Italia parte della produzione delocalizzata, nel tentativo di ridurre gli esuberi italiani. E medita di fare lo stesso la Beghelli, facendo rientrare alcune produzioni di lampade dalla Cina.
Tra luci e ombre, quello del rientro a casa è dunque un flusso. Il gruppo di ricerca Uniclub Backshoring, composto dalle Università dell’Aquila, Bologna, Catania, Modena, Reggio Emilia e Udine ha dimostrato che l’Italia è il primo Paese europeo per numero di ritorni: «L’Italia rappresenta il 60 per cento di tutte le rilocalizzazioni europee», spiega Luciano Fratocchi, docente di Ingegneria all’Università dell’Aquila, «e se fino a un decennio fa potevamo parlare di casi isolati, dal 2010 c’è stata una significativa accelerazione».
Che qualcosa stia cambiando lo pensa Stefano Dolcetta, titolare della Fiamm, multinazionale nel settore delle batterie per auto. «È finita l’era della delocalizzazione all’inseguimento di costi più bassi», dice Dolcetta, che pure vanta siti produttivi dalla Cina al Brasile. Fiamm aveva aperto uno stabilimento nella Repubblica Ceca per risparmiare sulla manodopera. Si è ricreduta. Racconta il numero uno, che è anche vice-presidente di Confindustria: «Non riuscivamo a tenere i dipendenti legati all’azienda perché il loro obiettivo era farsi assumere dalla Skoda. Abbiamo aumentato i salari ma se ne andavano lo stesso. Continuavamo a formare manodopera che puntualmente lasciava il posto, abbassando i livelli qualitativi». Così ha deciso di riportare la produzione di batterie per auto elettriche ad Avezzano, assumendo 360 dipendenti: «Abbiamo negoziato un salario d’ingresso e un contratto vantaggioso che ci permette di continuare ad aumentare la forza lavoro», spiega Dolcetta. Convinto che anche la Cina non sia più il paradiso del risparmio. Ad esempio, da settembre nel distretto industriale di Wuhan il governo ha imposto l’aumento del 20 per cento dei salari. «Se dovessi decidere in quale Paese investire oggi», sostiene Dolcetta, «sicuramente direi gli Stati Uniti».
Già, perché il primo sostenitore del rimpatrio è il presidente americano Barack Obama che, sfoderando la carta delle agevolazioni fiscali, ha convinto la Apple a riportare la produzione dei Mac negli States. Lo stesso ha fatto con Caterpillar, Ford e General Electric. Una tendenza che prende piede anche in Europa. Gran Bretagna e Francia propongono agevolazioni fiscali a chi apre una manifattura, mentre Olanda e Germania ci stanno lavorando. In Italia solo il Piemonte si è mosso in questa direzione con il Contratto d’insediamento. La Regione sostiene le imprese che investono più di 3 milioni e creano oltre 50 posti di lavoro facendosi carico di un quinto dei costi per l’apertura della nuova manifattura. Inoltre, per attrarre centri di ricerca, la Regione è disposta a pagare fino al 40 per cento dell’investimento. In quattro anni il Piemonte ha speso 17 milioni per 30 nuove aziende che hanno generato 1.500 posti di lavoro e potenzialmente potrebbe investirne altri 18 per convincere le imprese tentate dall’estero, come è successo con la Formenti & Giovenzana, un’azienda brianzola che produce componenti per cassetti e antine di mobili e cucine. «L’azienda aveva incassato una grossa commessa da Ikea ed era pronta ad ampliare lo stabilimento slovacco», racconta Gianfranco Di Salvo di FinPiemonte, l’ente che gestisce i contratti. «Prima che concretizzasse l’operazione, le abbiamo proposto di venire a Biella», spiega. L’impresa ha accettato e ha creato 270 posti di lavoro. L’impianto le è costato 23 milioni, la Regione ne ha spesi due e fornito l’assistenza tecnica per realizzare il capannone in 18 mesi: «Gli imprenditori sono spaventati più dalle lungaggini burocratiche che dai costi», conferma Di Salvo.
Se il Piemonte fa da apripista, il resto d’Italia attende gli effetti del piano "Destinazione Italia"che Enrico Letta ha annunciato. Una lunga serie di proposte che, se attuate, potrebbero assicurare regole più certe su fisco, giustizia, ricerca, semplificazione burocratica. Letta aveva cominciato un road show in giro per il mondo per attrarre investimenti esteri ma poi era stato richiamato in Italia dalla crisi di governo. Anche ora, però, l’Italia non offre uno scenario esaltante: «Il programma di riforme previsto da Letta va nella giusta direzione», dice Sami Kahale, presidente in Italia del colosso dei beni di largo consumo Procter & Gamble, 3.200 dipendenti nei suoi diversi stabilimenti tricolori. Kahale, che è vicepresidente del Comitato Investitori Esteri di Confindustria, stima un aumento di 0,23 punti di Pil ogni 10 miliardi di investiti. «Un paese si giudica in base alla sua affidabilità e il nostro ha bisogno di certezze e regole chiare, ma anche della possibilità di negoziare agevolazioni fiscali per chi sceglie di investire qui». A quel punto anche P&G porterebbe un’altra manifattura.
Farebbe lo stesso la Bolzoni Auramo, che produce forche per carrelli elevatori e che ha già ricollocato a Piacenza attività industriali distribuite in Estonia, Finlandia e Spagna: «Qui il lavoro costa meno ed è più flessibile grazie a un accordo con dipendenti e fornitori», dice il direttore marketing Carlo Fallarini. C’è anche chi torna per una questione di attaccamento al territorio. Paolo Bordin di Aku ha riportato i suoi scarponi dalla Romania a Montebelluna: «È anche questione d’immagine e qualità, oltre al fatto che sentiamo l’esigenza di mantenere vicino alla sede di progettazione un polo di esperienza manifatturiera».
Un obiettivo intelligente sarebbe intercettare il ritorno in Europa di aziende non necessariamente italiane. Le porcellane transalpine Geneviève Lethu, ad esempio, si sono ridistribuite tra Francia e Italia: «Se si va negli Stati Uniti o in Giappone con piatti francesi che recano la stampigliatura "made in China", il consumatore volta le spalle», dice l’amministratore delegato Edmond Kassapian. Una motivazione condivisa dalle griffe dell’abbigliamento, anche per quel che riguarda i fornitori. La fiorentina Nannini Pelle ha lasciato l’Est a favore dei terzisti italiani in parte perché garantiscono tempi di consegna celeri, in parte per rispondere alla domanda di made in Italy: «Il cliente vuole dettagli fatti bene e questo lo garantiscono solo i fornitori italiani», conferma il manager Alessandro Giudice.
Non tutti, però, sono pronti a trasformarsi in puristi del made in Italy. L’Anie, la Confindustria degli elettrodomestici, ha chiesto agli iscritti se erano favorevoli a rendere obbligatoria l’etichettatura con il luogo d’origine: «Siamo tra i pochi ad aver risposto sì», dice Francesca Polti. «E questo mi rattrista, perché l’etichettatura obbligatoria riporterebbe tante industrie». La battaglia, pur dura, non è tuttavia persa. Come mostrano alcuni recenti casi. Il primo è la Natuzzi che, per ridurre l’impatto dei 1.726 esuberi annunciati, ritrasferirà in Italia i divani oggi fabbricati in Romania, salvando 1.070 posti. Il secondo caso interessa la Bridgestone di Bari. Sette mesi fa la multinazionale aveva annunciato la cessazione dell’attività e 950 esuberi. Invece, grazie a un accordo con il governo e i sindacati, la fabbrica resterà aperta e per saturare gli impianti saranno trasferite qui alcune produzioni asiatiche. Infine il colosso degli elettrodomestici da cucina Indesit, che sta cercando di ridimensionare il piano di ristrutturazione, investendo 78 milioni. Sul tavolo anche l’ipotesi di trasferire a Fabriano una produzione di alta gamma che era stata spostata in Polonia. Questi casi sono la dimostrazione che, con un buon accordo sindacale e l’intervento del governo, restare in Italia è possibile.