Enrico Arosio, L’Espresso 18/10/2013, 18 ottobre 2013
UN PIANO PER L’ITALIA
Renzo Piano è reduce da un weekend a Londra con un vecchio compagno di avventure, Richard Rogers. Nel 1971 vinsero il concorso del Centre Pompidou di Parigi: allora fu un caso politico, oggi è un’icona mondiale del moderno. Lord Rogers fu nominato a suo tempo nella Camera alta dalla Regina Elisabetta; l’architetto genovese senatore a vita dal presidente Napolitano (che negli anni ha visitato di persona numerose sue opere nel mondo). In tempi di crisi, sembra che la politica cerchi l’ispirazione, o l’alibi, dei saggi e degli esperti. Per avviare le riforme istituzionali e per illuminare con saperi aggiornati governo e Parlamento. "L’Espresso" ha incontrato Piano a Parigi.
Mano sul cuore, senatore Piano. Può far qualcosa di utile un architetto al potere?
«Ah ah, ce l’ha chiesto anche il direttore del "Guardian", Alan Rusbridger, l’altra sera alla Royal Academy. Trentacinque anni fa Richard e io eravamo due bad boys che nella Parigi di Mitterrand, con il Beaubourg, crearono scompiglio. Oggi saremmo i grandi saggi. Mi sono chiesto, non essendo un politico, cosa posso fare di utile. Posso fare un progetto. Per affrontare il destino delle città italiane. Come trasformare il rapporto tra centri e periferie. Contrastare il consumo del territorio. Di queste cose ho parlato con Rogers (che fu urbanista capo della Greater London Authority, ndr.). E anche con un altro vecchio amico, Ken Livingstone, sindaco di Londra fino al 2008. Mi aiuteranno».
Non l’hanno messa in guardia dalle insidie della politica?
«Ho la mia età, un po’ le conosco. Mi ha colpito molto la nomina "a vita". E non vorrei fare il "fannullone a vita". Mi sento chiamato a un compito morale. Perciò vorrei offrire un progetto di lunga scadenza, non per una data elettorale, non per uno specifico governo. Io ho grande rispetto per la politica. Nel senso originario, della polis. Non sono un sessantottino, noi a Milano il ’68 lo facemmo tra il 1962 e il ’64, ma per me che vengo dal Politecnico, cresciuto nell’ansia del moderno e del sociale, è una bella sfida».
In che modo vorrebbe intervenire?
«Vorrei coinvolgere ogni anno una mezza dozzina di giovani sui trent’anni. Così spenderei bene i denari della mia indennità senatoriale, visto che si polemizza spesso sul costo dei parlamentari. E magari, a titolo gratuito, anche qualche amico, da Livingstone ad Amanda Burden, architetto capo di New York. Porterei in Parlamento il confronto con grandi esperienze internazionali. Da quindici anni sono ambasciatore Unesco, da dieci ho la mia Fondazione per i giovani. Non sono vincolato a un gradimento immediato, la mia è una voce disinteressata. Vedremo se ci riuscirò».
Le prime urgenze per l’Italia?
«L’Italia ha una bellezza fragile. Da qui dobbiamo ripartire. La fragilità va protetta. La città, lascito favoloso della nostra storia, tende a mangiarsi il paesaggio. Le periferie sono luoghi degradati, a volte pericolosi, deserti affettivi. Però hanno un’anima, un’energia. L’80 per cento di Milano e di Parigi è fuori del centro, nelle frange. È quella la città a cui penso. Con l’aiuto dei giovani: per suggerire come si trasforma la periferia in città. Livingstone a Londra ha promosso la green belt, la cintura verde; il piano regolatore di Genova è basato sul principio della demarcazione verde verso le colline: oltre non si può costruire».
Arrestare il consumo orizzontale di territorio. Densificare la città?
«Certo. Le periferie non devono più crescere. Invadono il paesaggio e creano situazioni insostenibili. Umanamente e in senso economico, perché i trasporti pubblici e persino la raccolta dei rifiuti diventano un problema».
Come fare per trasformarle?
«Fecondarle con funzioni civiche e pubbliche. Ove possibile, immerse nel verde. Ad esempio, come abbiamo fatto sull’area ex Michelin di Trento, portare un Museo delle Scienze. Portare ospedali, scuole, università, biblioteche, sale da concerto, campi sportivi. Tutto ciò che crea vita associativa. Il nuovo Palais de Justice di Parigi dove lo stiamo facendo? In centro? No, a Batignolles, periferia nord. La battaglia delle banlieue difficili la si vince andandole a fecondare con nuove energie».
E i nostri centri storici, in mano alle banche e ai turisti, ma proibitivi per i giovani, che ne sono espulsi?
«Riportare i giovani in centro è una sfida economica, lo so. Ma lo ha fatto pure Bloomberg a New York, che non è certo un sovversivo. Portare abitazioni a offerta calmierata. E smettere di costruire parcheggi in centro. Spostiamo i capitali spesi in parcheggi sui trasporti municipali, e in una generazione miglioriamo le nostre vite quotidiane».
Ci si scontra con gruppi d’interesse.
«La sfida è questa. Alimentare nuovo traffico privato, ormai, a Londra è vietato. Lo Shard, il nostro grattacielo di 310 metri, ha solo 40 posti auto, si è puntato su infrastrutture pubbliche efficienti. A New York, ai parcheggi non si pensa neanche più».
Edward Glaeser, economista di Harvard, ricorda che tra le aree metropolitane americanea, New York è quella che consuma meno benzina.
«E meno energia. La città verticale è più efficiente della crescita orizzontale periurbana. E non dimentichiamo i buchi neri da riempire: aree dismesse industriali, militari, ferroviarie, portuali».
È a favore della loro progressiva dismissione, in tempi di spending review?
«Certo. Io non predico la crescita zero, ma il recupero delle aree dismesse».
L’Europa gira grazie all’euro, ai treni veloci, agli aeroporti. Perché le resistenze alla ferrovia veloce in Italia?
«La rete ferroviaria europea è un grande tema dei prossimi anni. Non occorre che l’intero network sia ad alta velocità: non per forza, non ovunque. L’importante è la rete ferroviaria come mezzo di interconnessione tra città e distretti economici. È il più sostenibile».
Il bilancio dello Stato è sotto stress per l’Expo 2015. Possiamo permetterci di candidare Roma ai Giochi olimpici?
«Non so rispondere, oggi, sulle Olimpiadi. Quanto all’Expo, ho molto rispetto per il tema di partenza, cibo, nutrizione, energia per la vita, che è un tema nobile. Auguro all’evento un grande successo, ma invito a non trascurare il dopo-evento: è cruciale che abbia ricadute positive per la comunità».
Altrimenti, come diceva Auguste Perret nel 1929, l’architettura fa belle rovine.
«Il rischio rovine esiste. Ad Atene, vicino alla nuova Fondazione Niarchos, nella zona di Falero, abbiamo progettato un parco litoraneo sull’area dell’ex ippodromo, per contrastare l’abbandono di alcuni impianti olimpici del 2004».
E il Porto Antico di Genova, nato per le Colombiane vent’anni fa, funziona ancora?
«Direi di sì. Senza sprechi, alla genovese. Con il nuovo Delfinario si è completato un rammendo urbano».
Lei è intervenuto all’Aquila terremotata. Dobbiamo finanziare solo la Protezione civile o fare più prevenzione territoriale?
«La prevenzione è un must. Il nostro sistema idrogeologico è complesso. La mano dell’uomo ha fin troppo edificato e disboscato. Abbiamo centinaia di scuole che non sono antisismiche, è mai possibile? Oggi ci sono tecniche di consolidamento soft, senza evacuare le persone; pezzo per pezzo, a costi ragionevoli. Io stesso l’avevo proposto all’Aquila. Invano».
Da anni ormai lei lega l’architettura a varie forme di energia sostenibile.
«L’Italia, per forma fisica, è l’ideale campo prove per le energie alternative. Abbiamo sole, vento, geotermia. Un po’ di ottimismo! Sappiamo fare i motori Ferrari, i più complessi robot, e non saremmo in grado di produrre green economy? Lavoriamo sull’eolico leggero, sul solare applicato agli edifici, e non al posto dei campi di grano, che è un’assurdità. Auspico leggi che finanzino start-up di giovani. Lo ripeto: più che green economy, è Italian economy».
In giro per il mondo la toccano di più i giudizi sul declino dell’Italia o il rispetto per i nostri talenti individuali?
«C’è ancora rispetto. L’Italia è vista come un Paese mal gestito, temuta per la burocrazia ma ammirata per le capacità inventive. Perché hanno chiesto a me di fare il campus della Columbia University a West Harlem, zona di incroci etnici? Il presidente Lee Bolliger mi ha detto: perché voi italiani sapete cogliere i sottili rapporti tra il costruito, i luoghi pubblici e la storia. Columbia, a differenza di celebri atenei extraurbani, è un campus cittadino. Gli edifici preesistenti sono storicisti, di gusto europeo. Ma oggi la zona è fortemente interetnica. Vuoi un hamburger? Devi chiederlo in spagnolo. Per gli edifici al piano terra non prevediamo aule; solo funzioni pubbliche e di scambio col quartiere».
Lei ha lavorato tanto sui temi education, cultura, ricerca. Non sarà un caso.
«Nei luoghi dello studio, delle arti, delle scienze si consuma il rito dell’urbanità e della tolleranza. Vale per la Academy of Sciences di San Francisco, vale per l’Art Institute di Chicago dove Michelle Obama portava spesso le bambine. Vale per il nuovo Whitney di arte americana che costruiamo a New York: nel 1908 nacque come un club di artisti, nel 1966 Jacqueline Kennedy inaugurò la sede in Madison Avenue; e nel 2015 apriremo al Meat Market, gli ex macelli, la storia profonda di Manhattan...».
C’è una bella frase di Romano Prodi, largamente ignorata: «Un Paese non può rimanere ricco e ignorante per più di una generazione».
«La frase è acuta. E mi pare che anche il presidente della Repubblica, nominando senatori scienziati e umanisti, abbia dato un messaggio».
Stufo di declinismo?
«È l’ora di smetterla, col declinismo».
Condivide l’urgenza delle riforme istituzionali per il governo Letta?
«La condivido, ho incontrato Letta a New York, ma qui non vorrei fare il tuttologo».
Dovesse suggerire a un sindaco italiano di studiarsi una città europea?
«Preferirei invitare un Bloomberg a studiarsi una città storica italiana. Quando vinsi il concorso di Potsdamer Platz a Berlino, a capo della Daimler Benz c’era Edzard Reuter, un umanista, che si riferiva spesso all’Italia. Anche con Drew Faust, la presidente di Harvard, si ragiona dell’Italia. Parlano tutti al mio amore per le città antiche. Il progetto dell’Academy Museum di Los Angeles, a Steven Spielberg e compagnia l’ho spiegato usando anche la pianta di San Gimignano. Noi italiani siamo cresciuti nel rapporto tra locale e globale, nel mondo ci è riconosciuto. Inviterei la nostra opinione pubblica, se posso permettermi, ad avere più fiducia».