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 2013  ottobre 18 Venerdì calendario

«DA GIOVANE ERO UNO SFIGATO. CON LE RAGAZZE NIENTE DA FARE. SARÀ PER QUESTO CHE MI ATTRAEVA LA VIOLENZA. E QUELLI CHE ME L’HANNO INSEGNATA, DIVENTATO PUBBLICO MINISTERO, LI HO ARRESTATI»


«Dovrebbe essere proprio questo, il lavoro di uno scrittore: trovare le parole che mancano agli altri».
«Ti torna in mente una frase letta anni fa: “Non guardate indietro, ci siete già stati”. Allora ti era parso uno spunto arguto. Magari un po’ new age, ma arguto. Adesso ti chiedi se poi è vero che ci siamo già stati. Non sei così sicuro, non lo sai bene cosa c’è da quelle parti».
La ricerca delle parole. La passione per la filosofia. E il percorso a ritroso nel passato, che non è necessariamente una terra straniera. Ci sono molti temi nel nuovo romanzo di Gianrico Carofiglio – Il bordo vertiginoso delle cose –, che Rizzoli manda in libreria lunedì prossimo. «I fatti sono inventati, ma qualche riferimento autobiografico c’è», riconosce l’autore. Suo padre è ingegnere e non medico come nel romanzo, ha un fratello di tre anni più piccolo e non di tre anni più grande. Il fatto di sangue, evocato all’inizio del racconto e svelato solo alla fine, nella realtà non è mai accaduto. Ma la fascinazione giovanile per la violenza, racconta Carofiglio, non è un’invenzione letteraria. «Il bordo vertiginoso delle cose» è un verso di Browning che indica proprio il camminare in bilico sul crinale, sullo spartiacque tra bene e male, sull’abisso.
«Da ragazzo ero uno sfigato incredibile». Uno sfigato di successo. Carofiglio incanta il pubblico, in particolare quello femminile, perché lo conosce. Quando gli parli hai l’impressione di affidargli un segreto, anche senza bisogno che metta in pratica le sue teorie sull’interrogatorio e sulla confessione, cui ha dedicato diversi volumi scientifici: i suoi primi libri. «Dico davvero, con le ragazze proprio non ci sapevo fare. Forse l’attrazione per la violenza nasce da qui. Credo valga anche per i tanti balordi che ho conosciuto in vita mia: l’inclinazione alla violenza nasce da un senso di inadeguatezza. Da una debolezza. Una persona sicura di sé si tira indietro. Io non lo ero».

A scuola e in palestra. Enrico, il protagonista del romanzo, che ritorna a Bari alla ricerca di un amore perduto e di un’amicizia tradita, da ragazzo viene iniziato alle arti marziali. «Mi allenavo con gente che anni dopo, da pubblico ministero, ho arrestato», racconta Carofiglio. «Era un modo per curare la paura ereditata dall’infanzia, e anche per riscattare l’umiliazione di quella volta in cui le avevo prese. Fin da ragazzi ci si sfidava ad “andare in un portone”: ma era solo lotta, sopraffazione. Ricordo il pomeriggio in cui passammo ai calci e ai pugni. Un giorno, anni dopo, fui aggredito a scuola da un fascista. Il ragazzo che gli teneva i libri sarebbe diventato il mio migliore amico. Io però i libri li avevo in mano, e prima di gettarli a terra feci in tempo a evitare un pugno e a prenderne un altro. Poi però mi rifeci e lo menai. Diventai famoso nella scuola. E cominciai ad andare in palestra. Per questo diventai famoso a scuola, nessuno fino a quel momento aveva pensato che fossi un tipo da scazzottate».
Il bordo vertiginoso delle cose è anche costituito da tecniche di lotta: vi si impara ad esempio che la manata in faccia fa molto più male di un pugno, ed è meglio colpire con il calcio negli stinchi che più in alto, altrimenti l’avversario ti può afferrare la gamba e farti cadere. «Tutto vero. Il primo combattimento fu un pareggio. I balordi che giravano attorno alla mia parrocchia mi avevano puntato e attaccato, ma intervenne un garagista: “Così non è leale”. Individuò il capo del branco e gli disse di battersi con me, da solo. Gli altri si chiusero a circolo e ce le demmo di santa ragione. Riuscii a restare in piedi, insomma pareggiai. Cominciai ad allenarmi sul serio. Vinsi i campionati regionali di karate a Taranto, dopo aver battuto in semifinale l’idolo locale, e aver rischiato di dover affrontare pure i suoi tifosi. Poi vinsi anche due titoli nazionali».

Una domanda di troppo. «Nei bassifondi di Bari ho assistito a scene di violenza inaudita. Va detto che l’Italia degli Anni Settanta era un Paese più violento di quello di oggi: c’erano il terrorismo, la mafia all’epoca quasi incontrastata, una malavita fuori controllo, e anche un cinema un po’ trash i cui eroi erano Luc Merenda e Maurizio Merli. Ricordo una rissa a bottigliate, in cui prevalse un tipo piccolo, insignificante, cui nessuno di noi badava, ma che era il più cattivo. I livelli di violenza cui sono capaci di arrivare gli uomini sono inimmaginabili. Una volta assistetti a un regolamento di conti tra due bande rivali, interrotto dall’arrivo della polizia. Non ho mai visto gente menarsi in quel modo, e c’era una luce omicida negli occhi di molti di loro».
Nel libro Enrico ha una reminiscenza del suo passato quando affronta due scippatori che all’uscita da un “compro oro” rapinano una vecchietta, in cui il protagonista rivede la madre morta da tempo, che in fondo non aveva mai conosciuto. Anche a Carofiglio è accaduto da adulto di menare le mani? «Ero pretore a Firenze, quando due tentarono di rubare la borsetta a una collega. Eravamo in via Cerretani, tra il Duomo e Santa Maria Novella. Uno mi disse: “Ti spacco le ossa a una a una” e mi si gettò contro. Lì mi sono ricordato dei vecchi insegnamenti: usa la forza del tuo avversario contro di lui. Se spinge, tiralo. Se tira, spingi. Così l’ho scaraventato in un locale, con un gran frastuono di tavoli rovesciati. Il suo amico allora ha spezzato una bottiglia. Io ho preso una sedia… ».
Insomma, Carofiglio è meglio non provocarlo. Ma sul “bordo vertiginoso delle cose” si può camminare seguendo molti altri percorsi, diversi dalla violenza. L’amore non corrisposto. L’attrazione per la filosofia, in particolare per i sofisti, condannati alla “damnatio” da platonici e aristotelici, che furono in realtà i fondatori della cultura laica e relativista: l’uomo è misura di tutte le cose. E la maledizione dello scrittore rimasto senza parole, che da adulto vaga all’inseguimento di una storia, come da ragazzo cercava ispirazione raccogliendo gli incipit degli altri. La ricerca della verità nelle parole proprie e altrui è uno dei temi del lavoro di Carofiglio, sin dal primo libro, un manuale giuridico pubblicato da Giuffrè – Il controesame. Dalla prassi operativa al modello teorico –, che sfrondato dalle parti tecniche è diventato poi un saggio Sellerio sull’arte di interrogare. Quali sono le regole? «Primo: non fare domande inutili. Devi capire quando fermarti. Ho visto avvocati far condannare i loro clienti per una domanda di troppo. Si processava un balordo che aveva staccato un orecchio con un morso a un rivale. L’avvocato chiese al testimone: “Era notte?”. Sì. “Il garage era buio?”. Sì. “Lei era lontano almeno venti metri?”. Sì. A quel punto avrebbe dovuto fermarsi. Invece continuò: “Come fa a dire allora che il mio cliente ha morso un orecchio alla vittima?”. “Perché ho visto che lo sputava”. Una domanda di troppo decise il processo».

Letta, ma anche Renzi. Ora Carofiglio pratica l’arte della maieutica con la letteratura. «Per il prossimo libro sto pensando a un saggio sulle parole della politica. Non ho affatto un brutto ricordo della legislatura passata in Parlamento, e non ho affatto un’opinione spregevole della politica. Spero di potermi rendere utile anche in futuro: perché “le parole per dirlo”, senza ingannare gli elettori ma anche senza respingerli, sono importanti». Lei fu portato alla Camera da Veltroni e alle primarie 2012 scelse Bersani. Oggi starebbe con Renzi o con Letta? «Non ho mai condiviso le critiche preconcette a Renzi, che ha una grande capacità di conquistare consensi, anche a destra. Letta ha altre doti: equilibrio, capacità di governo. Non saprei scegliere. Spero che si mettano d’accordo, visto che sono complementari. Uno a Palazzo Chigi e l’altro alla Farnesina, per esempio». E lei? «Mi hanno proposto di fare il sindaco di Bari o il presidente della Regione, ma ho lasciato subito cadere il discorso. Adesso voglio fare l’avvocato». Dove? «A Roma. La mia Puglia, come dicono nel romanzo due turiste danesi, è “the coolest region in Italy”, la regione più alla moda d’Italia. Ma Roma è la città più bella del mondo. Voglio fare l’avvocato a modo mio: tutelare le persone offese, le donne perseguitate, i soggetti deboli. E poi fare consulenze investigative. Insegnare la tecnica dell’interrogatorio». Da magistrato, Carofiglio aveva un’ottima percentuale di confessioni. Quali sono le regole? «Primo, stabilire un rapporto di rispetto con la persona sotto interrogatorio. Secondo, mettere una distanza tra lui e il reato: non dire mai “l’omicidio” o “lo stupro” ma “il fatto”. Terzo, ridurre il peso scaricando parte della colpa su un altro: il complice, la madre, la società. Quarto, prospettargli incentivi seri a dire la verità. Senza ingannarlo, ma facendogli capire che gli conviene davvero parlare…».