Enrico Tagliaferro, Il Tempo 18/10/2013, 18 ottobre 2013
GUIDA RAGIONATA ALLE «BUFALE» SUL RAPPORTO TRA BOSS E ISTITUZIONI
Per far capire davvero a tutti cos’è stata l’inchiesta-bufala sulla asserita, presunta, indimostrata «trattativa» fra Stato e antistato mafioso occorre fare una contro-inchiesta dettagliata. E questa è la prima di una serie di puntate che vi sveleranno il grande bluff intorno al quale sono state imbastite leggende ed elucubrazioni anche plausibili, forse probabili, peccato che erano prive di qualsivoglia riscontro probatorio.
Per dimostrare quanto da sempre sosteniamo occorre partire dall’ultimo atto di un processo monstre: ovverosia le motivazioni della cosiddetta «sentenza Mori», dal nome dell’ex capo del Ros al centro di milli misteri, tutti sin qui crollati. Mori, per chi non lo ricordasse, è il carabiniere che insieme al famoso capitano Ultimo, catturò il capo dei capi di Cosa nostra: Totò Riina.
Il 17 luglio la IV sezione del tribunale di Palermo ha assolto gli ex carabinieri del Ros, Mario Mori e Mauro Obinu, dal reato di favoreggiamento del boss Provenzano «perché il fatto non costituisce reato». L’accusa rivolta agli ufficiali era quella di aver tenuto, con dolo, un comportamento omissivo, o comunque inadeguato, nel corso di un’operazione che nel 1995 avrebbe potuto portare all’arresto del boss latitante. Il tutto per consentire al boss di rimanere per l’appunto, latitante, in virtù di un pregresso accordo da inserirsi, sempre secondo l’ipotesi accusatoria, nel contesto di una vera e propria «trattativa» fra mafia e istituzioni.
Quest’estate la formula assolutoria del «fatto che non costituisce reato» suscitò subito un vivo dibattito sull’efficienza del Ros dei carabinieri in quella vicenda, poiché secondo i commentatori favorevoli alle tesi dell’accusa, la sentenza stabiliva comunque, assoluzione a parte, l’esistenza di comportamenti spiegabili, se non col dolo, quanto meno con l’incapacità o con l’indolenza dei responsabili. Oggi però, a leggere con attenzione le oltre 1.300 pagine di motivazioni appena depositate, si apprende che per i giudici le cose non starebbero proprio così. I fatti contestati ai capi del Ros sono stati posti inizialmente all’attenzione dei pm di Palermo da un certo Michele Riccio, anch’egli ex ufficiale Ros, che nel 1995 raccontò come grazie a un membro di Cosa Nostra che stava collaborando coi carabinieri, tale Luigi Ilardo, si sarebbe potuto catturare Provenzano, cosa che non avvenne in quanto gli imputati, a dire di Riccio, mantennero una strategia troppo «attendista», rinunciando a dare la caccia al boss in modo impulsivo, per attendere invece sviluppi che derivassero dal rapporto di questi con lo stesso Provenzano, lanciando così «un’esca lunga». Un metodo tipico del Ros sin dai tempi del generale Dalla Chiesa che spesso aveva avuto buoni esiti (si pensi a numerosi arresti di terroristi o di boss mafiosi) senza però compromettere l’incolumità degli informatori, a cominciare da Ilardo.
Purtroppo l’operazione fallì, anche perché Ilardo venne ucciso di lì a poco, omicidio sul quale lo stesso Riccio ha palesato il sospetto di un coinvolgimento istituzionale. Per dimostrare quindi la - secondo lui volontaria - inadeguatezza del comportamento dei suoi superiori, Riccio ha detto varie cose in più udienze. Rilevato immediatamente che questo supertestimone «nel perseguimento delle sue finalità, era un soggetto piuttosto spregiudicato e capace anche di mentire», il collegio giudicante definisce la sua come una «tendenziosa ricostruzione dei fatti», e rileva, col supporto di vari elementi procedurali, di come lo stesso colonnello-testimone Riccio per certi versi possa essersi «preso qualche libertà creativa, funzionale a rendere più interessante il proprio racconto e ad assecondare la ipotesi accusatoria».
In merito poi alla «strategia attendista» contestata al Ros nella caccia al boss, la Corte spiega come lo stesso Riccio, all’epoca, «la condividesse pienamente», mentre con riferimento a eventuali altri comportamenti degli imputati, i giudici rilevano che «Riccio accennò a scelte non condivisibili dei superiori, a una opzione operativa deludente, a un’occasione perduta, ma non fornì nessuna precisa indicazione in ordine ai variegati elementi che, a suo dire, avevano indotto in lui il convincimento circa la volontà di non catturare Provenzano». Secondo il collegio parlermitano, dunque, «si affaccia il sospetto che Riccio, influenzato dalle proprie personali ricostruzioni, parlando con terzi sia stato incline a enfatizzare alcuni fatti e a darne una versione non sempre corrispondente al vero, piuttosto tendenziosa e funzionale ad assecondare i propri convincimenti». Sull’omicidio del confidente Ilardo, secondo i giudici, il fatto che il Riccio avesse «la responsabilità esclusiva della gestione di Ilardo rende comprensibile che egli abbia voluto rimuovere ogni possibilità che il confidente fosse rimasto ucciso da mano mafiosa, sforzandosi di profilare oscure trame istituzionali», ma, conclude il collegio, «la suggestione radicata dalla collocazione temporale dell’omicidio di Ilardo non può che cedere di fronte alla univoca indicazione che si trae dalle dichiarazioni dei collaboranti». E qui i giudici mettono un punto. E scrivono che comunque la si voglia mettere «si può ragionevolmente concludere» che Ilardo è morto per regolamenti di conti mafiosi perché già nel mirino di Cosa nostra giustamente sospettosa sul suo conto. Concludendo: Il supertestimone Riccio che ha dato di fatto il là all’inchiesta sulla trattativa «ha mentito», oppure preso abbagli, e la mafia - senza far patti con nessuno - gli ha ucciso il confidente sul quale puntava il Ros per arrivare davvero a catturare Provenzano. Se l’inchiesta è partita male all’inizio non poteva che finire com’è finita: peggio.
(1 - continua)