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 2013  ottobre 18 Venerdì calendario

IL PARTITO DEL TE’


«Possiamo cominciare a sollevare questa nube di incertezza e disagio che grava sulla nostra economia e sul popolo americano — dice Barack Obama — c’è molto lavoro davanti a noi, a cominciare dalla necessità di riconquistare la fiducia degli americani perduta nelle ultime settimane». Il presidente ha vinto, il default finanziario degli Stati Uniti è stato scongiurato in extremis, da ieri mattina tutti i servizi federali sono tornati a funzionare dopo 15 giorni di serrata. Ma chi ha perso? Il Tea Party, l’ala estremista che ha portato i repubblicani alla disfatta, non accenna neppure a un’autocritica. Anzi, medita rivincite. Qualcuno di loro sogna perfino di ricominciare daccapo fra quattro mesi, quando scadrà il ri-finanziamento del debito pubblico. È poco probabile che i repubblicani moderati si lascino trascinare di nuovo nel tunnel auto-distruttivo delle ultime due settimane, che ha fatto precipitare il loro partito nei sondaggi. E tuttavia sono proprio i moderati a finire sotto processo, mentre il Tea Party è all’offensiva.
Per la sua nuova star, il senatore Ted Cruz del Texas, la votazione bipartisan di mercoledì sera ha un solo significato: «L’establishment di Washington si rifiuta di ascoltare il popolo americano». Lungi dall’aver salvato l’America dal baratro di una crisi di illiquidità, l’accordo in extremis è oggetto di tutt’altra narrazione per la frangia della destra radicale: è l’ennesimo “inciucio” tra membri della “casta” ai danni della nazione. Un episodio curioso la dice lunga sul sentimento che anima gli oltranzisti: una stenografa della Camera, vicina all’ala dei pasdaran, al momento del voto è sbottata urlando in aula: «Questa non è una nazione unita sotto Dio!», prima di essere trascinata di peso dalla polizia del Congresso.
C’è anche questo, nel Tea Party: una concezione “religiosa” della Costituzione, un testo sacro trattato con lo stesso integralismo con cui i creazionisti impugnano la Bibbia contro le teorie dell’evoluzione. La Costituzione come baluardo dei diritti individuali contro lo Stato Leviatano, di cui Obama e la sua riforma sanitaria sono un’ennesima reincarnazione.
Il Tea Party è l’ultimo capitolo di una “guerra dei quarant’anni”, guerra di religione per l’appunto. Sul finire degli anni Settanta, con altre etichette e altri leader, ebbe origine in California una poderosa reazione “movimentista” contro l’intervento pubblico nell’economia, il Welfare, le politiche fiscali redistributive.
Proposition 13, il referendum anti-tasse che vinse in California nel 1978, fu decisivo per proiettare Ronald Reagan alla conquista della Casa Bianca. Dietro gli slogan populisti agiva, allora come oggi, una poderosa macchina da guerra finanziata dai poteri forti del capitalismo più retrivo. Think tank ricchi e influenti come la Heritage Foundation e l’American Enterprise Institute, dinastie come quella dei fratelli Koch, centri accademici come la University of Chicago con il Nobel Milton Friedman, ispirarono la potente offensiva neoliberista. «Starve the Beast», affamare la Bestia cioè il Moloch statale togliendogli ogni risorsa, questo era l’obiettivo finale delle crociate anti-tasse.
Già allora a fianco all’agenda economica c’era la questione razziale. Reagan, ex attore hollywoodiano e comunicatore carismatico, inventò la leggenda di una Welfare Queen, regina dell’assistenzialismo: una donna nera che andava in Cadillac a riscuotere gli assegni per i poveri. L’agenda fin da allora era straordinariamente ambiziosa: quella destra voleva prendersi una rivincita contro il New Deal di Franklin Roosevelt, contro la Great Society di Kennedy- Johnson, contro le conquiste dei diritti civili degli anni Sessanta. Quarant’annidopo,unpresidente afro-americano alla Casa Bianca è un nemico ideale, che coagula tutte le paure e tutte le angosce dell’Americabiancaebigotta, armata fino ai denti e orgogliosa della propria libertà di inquinare il pianeta. Nero e anche criptomusulmano come vuole la leggenda intramontabile dell’estrema destra (altrimenti perché porterebbe Hussein come secondo nome?), nato in Kenya ad onta di tutti i certificati (quindi ineleggibile, illegittimo, usurpatore), ambientalista, contrario alle armi e favorevole ai matrimoni gay. L’Anti-Cristo, insomma.
Il Tea Party movement nella versione attuale nasce nel febbraio 2009. È un omaggio alla battaglia anti-coloniale che vide i Figli della Libertà di Boston gettare in mare balle di tè per protestare contro le tasse inglesi (1773). Lo getta nel gergo mediatico un anchorman della tv Cnbc, Rick Santelli, pochi giorni dopo l’Inauguration Day di Obama. Il tele-guru della finanza si scaglia contro gli aiuti di Stato a quei “parassiti” che hanno avuto i mutui subprime. Un altro bersaglio sono i banchieri di Wall Street salvati dal contribuente, operazione che in realtà ebbe inizio sotto George Bush. Il 12 settembre 2009 una gigantesca manifestazione invade Washington e segna l’apice del movimento. Ha tra le sue star Sarah Palin e l’ultra-libertario Ron Paul (quello che vuole abolire la Federal Reserve). Conta sull’appoggio mediatico dell’impero di Rupert Murdoch (Fox News, Wall Street Journal).
Nel 2010 l’offensiva trova un altro bersaglio: Obama-care, la riforma sanitaria. La dipingono come l’avvento diuna«sanitàsovietica»,statalista e burocratica. S’inventano perfino le «commissioni della morte», incaricate secondo loro di negare gli aiuti agli anziani costringendoli all’eutanasia. Via via che la riforma prende corpo e le accuse più stravaganti perdono credibi-lità, il Tea Party sposta la polemica su un terreno più tradizionale: l’assicurazione obbligatoria è «una nuova tassa». Viene smentito perfino dalla Corte suprema dove la maggioranza dei giudici sono conservatori, ma non importa. Le contraddizioni interne non disturbano il populismo: nella base del Tea Party, a maggioranza maschi bianchi e anziani, c’è chi accusa Obama di volergli togliere il Medicare… cioè quell’assistenza agli over-65 che in effetti è l’unico sistema sanitario davvero statale. Quando glielo togli per davvero, lo Stato, tutti ne sentono la mancanza: è l’autogol che i repubblicani hanno compiuto provocando lo
shutdown, rivelatosi impopolare anche tra i loro ranghi. È un replay della crisi del 1995-96 quando la destra guidata da Newt Gingrich costrinse Bill Clinton a un’analoga prova di forza, e poi i democratici vinsero le legislative.
Ma non è detto che il Tea Party paghi un prezzo elettorale pesante, quando si torna al voto per il Congresso nel novembre 2014. Dietro la polarizzazione di questa destra c’è anche uno stravolgimento delle regole elettorali. Il “re-districting” o “gerry-mandering” ha ridisegnato i collegi costruendo circoscrizioni blindate, dove l’unico rischio per un repubblicano è farsi scavalcare a destra da uno più duro di lui. Inoltre dal Texas alla Florida, gli Stati governati dalla destra moltiplicano gli ostacoli normativi tesi a scoraggiare l’affluenza alle urne delle minoranze etniche, neri o immigrati. Uno degli slogan più sentiti dalla base del Tea Party è “riprendiamoci l’America”. Non è difficile capire da chi vogliono riprendersela.