Gaia Piccardi, Corriere della Sera 18/10/2013, 18 ottobre 2013
LA LEZIONE DI MARADONA «PARLERÒ CON MARIO PERCHÉ NON CADA NEI MIEI ERRORI»
«Consideratemi pure il matto del villaggio. Mi piace: i matti, gli ubriaconi e i bambini dicono sempre la verità». Contenuti a stento da un vestito di sartoria e da un ego stabilmente ipertrofico, il matto, l’ubriacone e l’eterno bambino accompagnano il mito, con un’ora abbondante di ritardo, sul palco allestito dalla Gazzetta : il volo intercontinentale da Dubai è stato lungo, lo champagne nel frigobar dell’Hotel Boscolo freddo al punto giusto e dribblare gli ispettori di Equitalia (visita di routine, dicono) ha richiesto una presenza di sé che Diego Armando Maradona in tournée in Italia — stasera all’Olimpico per Roma-Napoli, domani forse in tv da Fazio, domenica shopping con la nuova fidanzata Rocio Oliva — ha ritrovato dopo un buon sonno ristoratore.
È sbarbato, tinto di fresco, strascica un po’ piedi (grandi) e parole (tante), si commuove per l’accoglienza — tifosi, cori, bambini con la maglia del Napoli di Ferlaino, adulti che d’incanto regrediscono all’età prepuberale, manager che cantano «Ommammamammammamma, sai che c’è...» smanettando il blackberry: il solito, meraviglioso, stravagante effetto-Maradona —, Gianni Minà lo prende per mano e Diego si fa portare dappertutto: dal barrio di Villa Fiorito («Dove sono nato trasparente, diretto e non comprabile. Si dice che tutto ha un prezzo: io no») a papa Francesco («Se giocassi ancora a Napoli tiferebbe per me perché è un uomo intelligente...»), dal presidente della Fifa Blatter («Non mi sono mai inginocchiato davanti a lui: ditemi come può gente che ha dai 95 anni in su vedere la realtà... Non gli interessa il calcio, gli interessa il business»), dall’ultima panchina, l’Argentina al Mondiale 2010 («Non ho rimpianti e Messi non mi ha deluso: dopo l’eliminazione nei quarti l’ho visto piangere come mai nessuno in vita mia»), alla prossima («In Italia? Magari. Al Napoli dopo Benitez? Mi piacerebbe! Non è vero che costo troppo: la verità è che hanno paura di me e le panchine le girano sempre gli stessi...»).
Manda baci. S’interrompe spesso con gli occhi lucidi. Riguarda i suoi indimenticabili gol come se li avesse segnati un altro, il Maradona originale e non questa copia-carbone imbolsita e malinconica che trae linfa vitale dai ricordi e dall’affetto altrui, infinitamente superiore all’amore che Diego ha avuto per se stesso. Della dipendenza dalla droga che l’ha portato a un passo dalla morte parla senza filtri, aggrappato al presente e alla famiglia («La cosa più importante in assoluto: senza, non avrei niente») con la lucida disillusione di un naufrago perennemente alla deriva: «Ho fatto piangere mia madre e le mie figlie. Ho toccato il fondo. Ho fatto male a tanta gente che mi era vicina ma non ho mai trascinato nessuno nell’abisso insieme a me. Poi un giorno Dalmita mi ha detto: abbiamo bisogno di te, papà, non morire per favore... Tra quattro mesi saranno dieci anni che non prendo niente». Ovazione. Cori. Dissolvenza.
Il genio e la sregolatezza del fuoriclasse che in 52 anni non si è fatto mancare niente. Capricci, donne, gol. È qui, al bivio tra l’eternità nello sport e la straordinaria mortalità delle sue spoglie viventi, che nel discorso del Pibe entra a gamba tesa, elettrico come negli ultimi infelici giorni di nazionale, l’aspirante totem Balotelli. «A Mario vorrei parlare faccia a faccia, da soli in una stanza. Gli racconterei tutte le mie brutte esperienze fuori e dentro il calcio. E lui saprebbe che uso farne. Nessuno può insegnargli a vivere ma quel ragazzo va giudicato per quello che fa in campo. Lasciatelo tranquillo, Balotelli. Quando giocava nel City con Aguero, il papà di mio nipote Benjamin, mi mandò una foto in cui fumava un Avana... Mi ha fatto ridere!». La sua personalissima classifica di fenomeni (che in confronto a lui sono banali)? «Primo Messi: nessuno ha il suo gioco di gambe. Poi Cristiano Ronaldo: come tocca la palla... Poi Neymar. E quarto Balotelli».
Il calcio moderno, così isterico e muscolare, non gli piace granché. «Decine di partite nel mondo, ogni domenica, sono truccate. Non mi ci abituerò mai. Troppi interessi, oggi, nel pallone...». I suoi idoli contemporanei sono Morales (Bolivia), Correas (Ecuador), Maduro (Venezuela), i cervelli del laboratorio sudamericano («Sono il loro portavoce: i presidenti che vogliono migliorare la vita del popolo mi piacciono»), è stato intimo di Chavez ed è amico fraterno di Castro, «che mi ha aperto le porte di Cuba quando nemmeno in Argentina volevano curarmi». Sputa su Pelé, «il moreno che con me si è abituato ad arrivare secondo», ha petali per Moratti («Un signore di classe») e spine per Galliani (maltrattato nel dvd), ride e piange e quando si fa tardi prende il matto, l’ubriacone e il bambino e se li porta via, destinazione Dubai. «Vivo lì perché ci sono pace e rispetto per Maradona», il padre, il figlio e lo spirito santo del pallone in 165 cm.
Chi è Diego oggi? «Un uomo normale che può camminare a testa alta». Bugia. Piuttosto morto ma normale, mai.