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 2013  ottobre 18 Venerdì calendario

DESERTIFICAZIONE DEL SUD I MORTI SUPERANO I NATI


C’è da rimanere impietriti a guardare in quali condizioni versa il Sud. Il lavoro è una chimera, la povertà aumenta vertiginosamente, i giovani scappano, il divario con il resto del Paese diventa abisso. Per non parlare del macigno della criminalità. L’ultimo rapporto del centro studi sull’economia meridionale Svimez ci consegna uno scenario angosciante, nel quale avanza soltanto una cosa: la desertificazione. Industriale, economica, ambientale. Perfino umana: nel 2012 il numero dei morti ha superato quello dei nati vivi. Nella storia del Mezzogiorno d’Italia era accaduto soltanto due volte: nel 1867, pochi anni dopo l’unità, e nel 1918, anno dell’epidemia di spagnola. Un dato che segnala le proporzioni di un dramma destinato ad assumere proporzioni enormi, considerando che anche la fecondità femminile ha subito una preoccupante battuta d’arresto. Non si fanno più figli: 1,35 per ogni donna al Sud, 1,43 al Centro-Nord. Il rapporto Svimez ci dice che il ritmo dell’emigrazione è ormai costante. L’anno scorso sono scappati dalle Regioni meridionali in 112 mila. Negli ultimi vent’anni hanno definitivamente lasciato il Sud 2 milioni 700 mila persone. Fuggono i giovani, che sono il 70 per cento di chi emigra, fuggono le donne, che sono il 50 per cento, fuggono i laureati, che sono il 25 per cento. Né il flusso di immigrati riesce a compensare questo inesorabile esodo, considerando che vanno quasi tutti al Centro-Nord: sette persone su otto.
Le proiezioni dicono che continuando così per il 2050 il Sud avrà perduto altri 4 milioni 200 mila abitanti. «Poco oltre la metà del secolo in corso — avverte il rapporto — il Mezzogiorno è destinato a diventare una delle aree con il peggior rapporto tra anziani inattivi e popolazione occupata e con la più alta percentuale di ultraottantenni sul totale della popolazione complessiva».
La grande fuga ha ragioni innanzitutto economiche, anche se non sono le uniche. Perché se la crisi ha messo in ginocchio il Paese, il Sud è letteralmente al tappeto. Un dato ci dice tutto: nel 2012 il Pil procapite, cioè la ricchezza prodotta da ciascuno, è pari al 57,4 per cento di quello del Centro-Nord. In media 17.264 euro contro 30.073. I più poveri in assoluto sono i calabresi, con 16.460 euro. Appena sopra quella soglia, i campani (16.462) e i siciliani (16.546). Il Prodotto interno lordo del Mezzogiorno è pari oggi al 30 per cento di quello del resto del Paese: nel 2007, prima che la Grande depressione iniziasse, era il 31,1. Il divario è addirittura più ampio rispetto a quello che si registrava quarant’anni fa e dal 2005 aumenta progressivamente. Tanto da rendere concreto il rischio di quello che il ministro della coesione Carlo Trigilia, sociologo siciliano autore del libro «Non c’è Nord senza Sud» chiama «la trappola del sottosviluppo». Dal 2007 al 2012 il Pil meridionale è piombato giù del 10 per cento, a fronte di un calo del 5,8 per cento nel Centro-Nord. I dati Svimez dicono che, andando avanti di questo passo, per colmare il fossato che separa le due Italie ci vorrebbero quattro secoli.
Ancora. Nei cinque anni considerati i consumi delle famiglie sono scesi del 9,3 per cento, contro il 3,5 per cento del Nord. Gli investimenti industriali sono crollati del 47 per cento. Soltanto fra il 2009 e il 2012 il settore manifatturiero meridionale ha perduto il 20 per cento degli occupati, lasciando per strada 158.900 persone. La disoccupazione «ufficiale» media è al 17 per cento, a fronte dell’8 per cento nel resto d’Italia. Nel 2012 il 60 per cento dei senza lavoro meridionali si trovava in quella tragica condizione da più di un anno. Di conseguenza, il tasso di occupazione delle persone in età lavorativa, compresa cioè fra 15 e 64 anni, è ai minimi termini: 43,8 per cento, 20 punti esatti meno del 63,8 per cento che si registra nel Centro-Nord. Nel primo trimestre del 2013 il Sud ha perduto altri 166 mila posti di lavoro, con il risultato che il numero degli occupati è sceso sotto la soglia dei 6 milioni: non accadeva dal 1977, trentasei anni fa. I giovani sono letteralmente falcidiati, con un tasso di disoccupazione del 28,5 per cento, cresciuto di dieci punti rispetto al 2008, quando la crisi è iniziata. Il conto, di cui è in gran parte responsabile una classe dirigente inadeguata, adesso lo pagano loro. Quelli che restano, almeno.