Marco Galluzzo, Corriere della Sera 18/10/2013, 18 ottobre 2013
LA SOLITUDINE DEL LEADER E I SOSPETTI SU CASINI: SEI MESI DI ACCUSE E VELENI
ROMA — «Il giorno della fiducia al governo ha rifiutato di essere intervistato dal Tg1, a suo giudizio gli davano poco spazio. Erano 30 secondi, altro che poco spazio! Il risultato è che non abbiamo un leader, Monti è rimasto altezzosamente distante dal partito che ha fondato. Una volta ha detto che era schifato nello stare accanto a noi, nella stessa nostra stanza! Scelta civica è morta il giorno dopo essere nata, è come se il padre non l’avesse mai riconosciuta».
Il senatore che ha firmato il documento dei «traditori», sulla legge finanziaria, non vuole essere citato. Ma per lui, come per gli altri, e come per Mario Mauro, il tradimento di un progetto comincia proprio dalla persona di Mario Monti: troppo lontano dalla sua creatura, troppo chiuso nel suo studio di senatore a vita, troppa poca passione per strutturare un movimento che avrebbe avuto bisogno di sintesi politica e cura continua. Soprattutto perché giovane.
L’esegesi del tradimento, o della sfiducia, perché Monti dichiara oggi di essere stato «sfiduciato» dai suoi, è dunque a doppio senso: gli uni accusano lui; lui gli altri. È anche la frana di un partito nato diviso e rimasto ingabbiato nelle aspirazioni personali di tanti. Vittima di visioni diverse, cattolici contro liberali, montiani doc contro gli altri, e forse anche di un’irrisolta collocazione politica, a cominciare dal dilemma sulla destinazione europea: con il Ppe, e qualcuno maligna sulla carriera successiva dell’ex premier, «più garantita», o con quei liberali che oggi fra gli italiani ospitano solo i cinque eurodeputati di Di Pietro?
Monti il dilemma lo ha risolto solo la settimana scorsa, a favore dei popolari, ma dopo mesi di rumors e di indecisioni, discussioni interne e incertezze.
Ieri, alle sette del pomeriggio, Mario Monti e Mauro Mario si sono visti, nello studio del ministro della Difesa. Non è stato un confronto sereno, nè in discesa. La posizione di Mauro è stata più o meno questa: «Per me è inammissibile indebolire il governo, minacciare periodicamente di uscirne, Scelta civica non è nata per fare il partito di lotta e di governo. Ho lasciato Berlusconi e il Pdl per lo stesso motivo, non sono disposto ad accettarlo ora, questo governo deve andare avanti».
Visto che i senatori che la pensano come Mauro sono la maggioranza del gruppo al Senato l’ex premier ha preso atto e si è dimesso. Non senza accusare il suo interlocutore di aver tradito una precisa linea politica, di voler «fare fuori» Scelta civica («mi hai sfilato il partito», era ieri la sintesi delle agenzie). Un partito che per Monti è leale con l’esecutivo ma anche libero di criticare e giudicare, ed eventualmente bocciare, le cose che non ritiene corrette.
La principale accusa dell’ex premier sulla legge di Stabilità, a esempio, è che non contiene riforme strutturali, «le uniche che fanno realmente crescere un Paese». Insomma, ci vorrebbe molto di più di quello che finora ha fatto il governo Letta, compreso un contratto di coalizione, e non quella linea di «appoggio incondizionato» che Mauro avrebbe condotto e rafforzato a sua insaputa.
Ora ci sono due partiti, almeno al Senato. Come dire che non c’è più Scelta civica. Che i firmatari del documento di sostegno alla manovra economica guardino a Berlusconi, o che Mauro li abbia promessi in dote al Cavaliere, è una bufala: il diretto interessato ha smentito, ma soprattutto «serve a smentire la mia storia personale, con Berlusconi ho chiuso, per svariate ragioni, ora occorre semmai un soggetto diverso, che ancora non c’è, ancorato in modo autentico ai valori del Ppe».
Difficile non notare delle simmetrie con quanto accade nel Pdl: alla fine è come se anche in Sc, con dinamiche e numeri più piccoli, si fosse prodotto uno scontro fra due tipi di lealisti: gli uni all’esecutivo, gli altri a favore di Monti. I primi hanno chiesto una verifica, l’ex premier l’ha giudicata un tradimento e si è dimesso.
Del nuovo gruppo al Senato si dicono già tante cose: sono 11 quelli che hanno firmato, più Mauro, ma ci sono anche altri pronti a formare un contenitore centrista, versione italiana e istituzionale (nelle aspirazioni) del Ppe. In tutto sarebbero già 20-25, compresi alcuni senatori delusi dal Pdl, in lizza anche Giovanardi e Formigoni. Uno dei registi dell’operazione, firmatario anche lui, sarebbe Pier Ferdinando Casini: nel suo studio al Senato, ieri mattina, sarebbero stati visti i dieci suoi colleghi. Forse l’ex presidente della Camera raccoglieva le firme.
Non è la prima volta che Monti si dimette, nel suo stesso partito: una prima volta fu l’allergia dell’ex premier per le diatribe interne e i personalismi (fu quando disse «sono schifato»); la seconda accadde in estate, sulla decisione di rimuovere Andrea Olivero dalla carica di coordinatore del movimento. Allora l’ex premier decise, ma fu in qualche modo «processato» per la decisione, dai cattolici del movimento: si dimise, anche un notaio ebbe un ruolo nella certificazione del gesto, al termine di una lunga notte. Poi però le dimissioni rientrarono. Come nel primo caso.
Quelle di ieri appaiono invece un gesto definitivo: Monti si dimette, lascia la presidenza del partito, lascia un gruppo di fedelissimi, da Benedetto Della Vedova a Pietro Ichino, da Linda Lanzillotta a Gianluca Susta sino ad Alberto Bombassei. I funzionari del partito, preoccupati per il loro futuro, li chiamano «gli ultimi giapponesi montiani». La decisione dell’ex premier di iscriversi al gruppo misto di Palazzo Madama li lascia indubbiamente smarriti.
Scelta civica ha raccolto tre milioni di voti appena pochi mesi fa, non è riuscita a spegnere la prima candelina. Monti negò che il risultato fosse deludente, quei «milioni» di elettori erano comunque un successo, almeno per una campagna elettorale breve e ingessata dalla carica di presidente del Consiglio. «Tanti elettori in così poco tempo, quasi un miracolo», disse l’ex commissario europeo. Con altrettanta velocità quel progetto è naufragato ieri, otto mesi dopo.