Stefano Semeraro, La Stampa 17/10/2013, 17 ottobre 2013
DALLA DIASPORA AL BRASILE IL MIRACOLO DELLA MINI BOSNIA
Safet Susic è uno abituato a gestire le situazioni complesse. Nel 1982, quando era giocatore, riuscì a firmare un contratto per due squadre, Torino e Inter. Per negargli un’improbabile ubiquità dovette intervenire l’Uefa, e il ragazzo di Zavidovici finì al Paris Saint-Germain. Un destino, quello dell’emigrante di lusso, condiviso da molti dei talenti bosniaci che proprio l’ex centrocampista del Psg, oggi installato sulla panchina della Nazionale, ha guidato alla storica qualificazione per i Mondiali brasiliani.
La Bosnia Erzegovina è la più aggrovigliata e disastrata delle repubbliche create dall’implosione della Jugoslavia, lacerata da faide etniche fra serbi, musulmani e croati che la fine del conflitto non ha risolto, tormentata dalla corruzione (anche nello sport), piagata da una recessione economica brutale (28% di disoccupazione). Difficile immaginare che Sarajevo, Srebrenica o Mostar, all’indomani dell’apocalisse bellica e in un Paese che conta appena 3,8 milioni di abitanti, potessero fertilizzare miracoli sportivi. E infatti la «zlatna generacija», la generazione d’oro del calcio bosniaco, è fiorita (quasi) tutta all’estero. L’eccezione è Edin Dzeko, nato e cresciuto a Sarajevo, ma oggi punta di diamante del Manchester City. Gli altri hanno dovuto assaggiare la diaspora, un po’ come è avvenuto per i campioni serbi del tennis, da Novak Djokovic ad Ana Ivanovic: Pjanic in Lussemburgo, Bikakcic in Germania, Medjunanin in Olanda, Begovic in Canada. Zvejezan Misimovic è nato in Germania da due emigrati di Bosanka Gradiska ed è tornato in Bosnia solo dopo essere stato scartato dal Montenegro; Vedad Ibisevic, l’uomo che ha segnato il gol decisivo per la qualificazione contro la Lituania, ha imparato a giocare a St. Louis, negli States. Leggenda vuole che da ragazzino, a fine Anni 90, anche Zlatan Ibrahimovic, figlio di un bosniaco emigrato in Svezia, avesse tentato di giocare per la Nazionale paterna, bloccato però da una richiesta di denaro da parte della non trasparente dirigenza bosniaca. I bosniaci, del resto, fra gli ex jugoslavi hanno la fama di essere i più bravi a corteggiare la sfera, che si tratti di pallanuoto, calcio o basket poco importa. Una qualificazione importante l’avevano già sfiorata nel 2009, sconfitti agli spareggi per il Mondiale sudafricano dal Portogallo, e poi nel 2011, beffati da un rigore poco chiaro con la Francia sulla strada per l’Europeo in Polonia e Ucraina.
Stavolta a far quagliare l’occasione è stato un gomitolo di concause: un girone più che abbordabile (Grecia, Slovacchia, Lituania, Lettonia, Lichtenstein), la qualita di un «djaspora team» che si è fatto le ossa nei maggiori campionati europei e l’offensivismo obbligato di coach Susic. «Per molti giochiamo in maniera ingenua - si difende l’ex golden boy - ma non posso fare altro con in squadra punte come Dzeko e Ibisivic e centrocampisti offensivi come Misimovic e Pjanic. Dobbiamo fare più gol degli avversari, snaturarci sarebbe sbagliato». L’azzardo funziona. E non solo in campo, visto che il rissoso puzzle bosniaco oggi impazzisce per una squadra che, svelenita da una giovinezza passata lontana dalle tensioni etniche , in Nazionale sa addolcire le divisioni. «Il Paese è spaccato da enormi problemi economici e sociali - spiega Susic - e anche il nostro calcio ne soffre. Ma giocare in Brasile ci aiuterà in tutte le direzioni. Anni fa era impossibile immaginare che serbi, croati e bosniaci tifassero insieme per la Nazionale, oggi le cose sono cambiate. Questa è una squadra che unisce». Almeno fino a quando riuscirà a vincere.