Anna Zafesova, La Stampa 17/10/2013, 17 ottobre 2013
AL BANO E PUPO L’AMERICA È NELL’URSS
Sono tornati, anzi, non se ne sono mai andati. Il tutto esaurito per le tre serate dedicate ai 70 anni di Al Bano – biglietti da 45 a mille euro nella gigantesca sala di Krokus City di Mosca che si prepara oggi ad accogliere migliaia di fan – è solo l’ultimo dei trionfi che le star della canzone italiana, gli «italianzy» come vengono definiti in blocco, mietono immancabilmente nell’ex Urss.
Dagli stadi della Siberia alle sale del Cremlino che ricordano ancora i congressi del Pcus, alle feste lussuose degli oligarchi, annunciati da cartelloni giganteschi, Toto Cutugno e Pupo vengono accolti da fan estasiati/e, e non c’è casa dove non ci siano incisioni (nel Paese della pirateria è impossibile quantificare le vendite, ma si parla di decine di milioni) di Celentano e di Al Bano e Romina. In Russia i Ricchi e Poveri sono più popolari del Rolling Stones, e un italiano rischia sempre – spesso senza coglierla – con gli amici russi la battuta «Italiano? Un italiano vero?».
I Paesi dell’ex Unione Sovietica sono sempre più la nuova America per i nostri cantanti del genere melodico all’italiana Anni Settanta e Ottanta.
Un amore che non è mai venuto meno negli ultimi trent’anni, quando una notte della primavera del 1983 la tv di Stato sovietica trasmise a sorpresa il Festival di Sanremo di poche settimane prima. Nessuno ha mai capito quale ingranaggio sia scattato nei meandri della censura comunista, che di solito si spingeva al massimo ad autorizzare un varietà della tv della Ddr, con balletti di corpulenti bionde in minigonna, e rarissimi passaggi degli Abba, di solito trasmessi la notte di Pasqua per trattenere la gente a casa ed evitare che andasse a messa. Al potere al Cremlino sedeva Yuri Andropov, mastino del Kgb, per un disco dei Pink Floyd si potevano avere serie grane a scuola, e i giornali di regime (non che ce ne fossero altri) denunciavano il rock come operazione del capitalismo per distrarre i giovani dalla lotta di classe, convinti – esattamente come le mamme americane degli anni ’50 – che Mick Jagger fosse posseduto dal demonio. La radio, solo a filodiffusione, trasmetteva musica classica e dibattiti sui kolkhoz, e la tv nelle rare occasioni delle feste comandate, anniversario della rivoluzione d’Ottobre o Giorno della milizia, mandava in onda concertoni fiume dove la scaletta era stabilita una volta per tutte: musica da camera, balletto, canti popolari, canzoni «impegnate» di guerra e patriottismo eseguite da impettite ugole d’oro insignite del premio Lenin. Nel finale, rigorosamente dosati, quelli che tutti aspettavano: un comico, un gruppo «vocale-strumentale», la versione sovietica del rock a confronto dei quali i Pooh sembravano i Black Sabbath, le star di musica leggera con qualche canzone di amore strappacuore.
In quel mondo l’arrivo degli italiani – forse considerati ideologicamente non pericolosi – fu una folgorazione. I 300 milioni di telespettatori non avevano mai sentito parlare prima di Sanremo, ma si svegliarono in un Paese diverso. Nelle case della cultura, nei ristoranti e alle feste della scuola si suonavano – e si cantavano, senza capire le parole, traslitterate a orecchio in cirillico - «L’italiano» di Toto Cutugno e «Felicità» di Al Bano e Romina. Da ogni mangianastri uscivano i Ricchi e Poveri e Riccardo Fogli, spesso registrati direttamente dalla tv, oppure scovati in qualche banchetto che semi illegalmente duplicava le cassette di contrabbando. Le iscrizioni a corsi di italiano esplosero, migliaia di ragazze volevano capire cosa cantava Pupo, e decine di famiglie russo-italiane affondano le loro radici in quella passione. Ma bastava vedere Al Bano e Romina che si fissavano negli occhi per capire che cantavano di amore. Gli «italianzy» erano belli, romantici, melodici, eleganti, totalmente non ideologici, adatti alle nonne e alle nipoti, alieni provenienti da un mondo meraviglioso dove ci si poteva dedicare alla vita privata, ai sentimenti, alla felicità.
Fu quasi un anticipo della perestroika, che dopo due anni portò Pupo e soci a Mosca in carne e ossa, per dare inizio a una gloria che non è mai più tramontata. Gli innumerevoli siti di fan di Cutugno, «Kutunio» come viene spesso traslitterato, lo elogiano come «il maestro melodico più grande di tutti i tempi», e in occasione del concerto di oggi Al Bano viene presentato dai giornali russi come un padre della patria: «In Italia si dice che se non lo ascolti non sei un vero patriota». Qualcuno pagherà mille euro per la platea Vip, qualcuno 40 per il balcone «con visibilità limitata», avvertono onestamente in cassa, ma tutti per una sera si sentiranno uguali come quando, nel 1983, ascoltavano Sanremo su una cassetta duplicata tritata da un mangianastri scassato.