Giovanni Valentini, la Repubblica 17/10/2013, 17 ottobre 2013
LETTERA A UN FIGLIO GRILLINO
Che cosa accade a un padre di famiglia, di professione giornalista, libero elettore di centrosinistra con la presunzione di considerarsi un cittadino “democratico”, quando scopre con un certo sgomento che un figlio aderisce e milita nel Movimento 5 Stelle? E, anzi, è diventato un convinto sostenitore e seguace di Beppe Grillo, al limite dell’indottrinamento o del fanatismo?
Superato lo shock iniziale, gli viene voglia di capire, di approfondire, di darsi una ragione. Comincia così a parlarne e a discuterne nell’arco di alcuni mesi con il figlio poco più che trentenne, laureato in Ingegneria delle telecomunicazioni, teorico libertario della Rete, grande esperto di wi-fi, social network e quant’altro. Ne discute innanzitutto a voce; ma anche per iscritto, a distanza, via Internet, attraverso le email, gli sms, i tweet, per lo più in tempo reale. Anche a colpi di provocazioni.
Questo dialogo in pubblico fra un padre e un figlio è nato così: da un lato, il bisogno intellettuale (e personale) di capire; dall’altro, l’ostinata determinazione a spiegare, a difendere le proprie motivazioni, a rivendicare i propri diritti. Un confronto che interpella la coscienza civile di entrambi, ma può coinvolgere anche chi legge da una parte o dall’altra della barricata. Ovvero, uno scontro generazionale sulla politica e l’antipolitica, sulla sinistra e Beppe Grillo con tutte le contraddizioni del suo Movimento, sui meccanismi a volte distorti dell’informazione tradizionale e sulla comunicazione alternativa del web.
Non so francamente chi dei due ne esca, per così dire, vincitore. E in realtà poco importa. Giudicheranno, semmai, i lettori. Nel dialogo spesso acceso e polemico intorno a questo “Voto di scontro”, tra il padre giornalista e il figlio-nipote di giornalista, né io né tantomeno lui abbiamo modificato le nostre rispettive posizioni. Ma almeno per me, e mi auguro anche per lui, è stato uno scambio e forse un arricchimento di idee, di opinioni, di spunti di riflessione. Una sorta di autoanalisi reciproca.
La politica, in fondo, se ancora conserva la capacità di appassionare è proprio per questo. Perché ognuno matura autonomamente un pensiero, una visione della società e del mondo. E perché ognuno, se vuole, può prendere e dare qualcosa nel rapporto dialettico con l’interlocutore. Quando il confronto è onesto e leale — e tra padre e figlio non può non esserlo, se non altro per motivi di sangue — alla fine si può anche trovare un’intesa: nel senso che ciascuno si fa carico delle ragioni altrui, cerca di comprenderle, di assimilarle, senza arrivare necessariamente a condividerle.
Da questa esperienza comune ho tratto tuttavia la convinzione definitiva che il Movimento 5 Stelle non è l’antipolitica, come all’inizio superficialmente molti hanno pensato, ma l’effetto o l’onda lunga della malapo-litica: cioè del malcostume, del malaffare, del malgoverno che affliggono il nostro Paese. Vale a dire una reazione, in parte razionale e in parte umorale, nei confronti di una deriva della partitocrazia intesa come degenerazione patologica del sistema dei partiti, l’occupazione dello Stato, gli abusi, gli sprechi, le ruberie. Quella “questione morale”, insomma, che in una celebre intervista a Eugenio Scalfari per Repubblica Enrico Berlinguer cominciò a denunciare ormai più di trent’anni fa, senza tuttavia che i suoi epigoni siano riusciti a risolverla o quantomeno a ridimensionarla. Un deficit di etica pubblica che affonda le radici nella stessa storia d’Italia, nella sua cultura e nella sua tradizione.
Nel frattempo, noi adulti abbiamo continuato a consumare incoscientemente risorse ed energie di ogni tipo, ambientali, economiche e perfino morali, a danno delle generazioni successive. È vero che «le colpe dei padri — come si legge nell’Antico Testamento — ricadono sui figli»: non nel senso, però, che le punizioni per gli errori individuali dei genitori si trasferiscono sui loro eredi, ma piuttosto nel senso che le responsabilità collettive degli uni finiscono per riversarsi fatalmente sugli altri. Ed è, appunto, contro questa ingiustizia che si battono legittimamente i giovani d’oggi, reclamando almeno pari opportunità e pari diritti rispetto a chi li ha preceduti: dallo studio all’occupazione, dal welfare alla sicurezza fino alla pensione.
A differenza di quanto avvenne all’epoca del Sessantotto, ora la protesta si combina con la rabbia sociale alimentata dalla crisi economica, dalla mancanza di lavoro e soprattutto di prospettive per il futuro. Quella dei nostri figli, dentro o fuori il Movimento 5 Stelle, è una generazione senza orizzonte. Scoraggiata, frustrata, depressa. Ecco perché, nonostante tutti i motivi di divisione e di contrapposizione, non possiamo e non dobbiamo rinunciare a capire, a discutere, a dialogare con loro.
«Se noi vogliamo essere ancora presenti», avvertì Aldo Moro all’XI Congresso della Democrazia cristiana, il 29 giugno 1969 a Roma, «ebbene dobbiamo essere per le cose che nascono, anche se hanno contorni incerti, e non per le cose che muoiono, anche se vistose e in apparenza utilissime». Oggi che siamo tutti immersi nell’incertezza esistenziale più cupa, questa “lezione” resta ancora valida e attuale. Le «cose che muoiono», purtroppo, le conosciamo fin troppo bene. Ma le «cose che nascono» richiedono capacità di comprensione, disponibilità al confronto, impegno e intelligenza: anche per farle crescere e magari maturare, proprio come si deve fare con i figli.