Federico Rampini, la Repubblica 17/10/2013, 17 ottobre 2013
ACCORDO IN EXTREMIS SUL DEBITO USA VOLA WALL STREET
L’AMERICA si è fermata sull’orlo del precipizio e ha finalmente deciso di non buttarsi giù. Mancava ormai una manciata di ore al default finanziario della nazione più ricca del mondo. Un accordo tra democratici e repubblicani al Senato ha sconfitto l’ala oltranzista della destra.
E HA rifinanziato il bilancio corrente cessando lo shutdown che da 15 giorni paralizzava alcuni servizi federali. Ha anche alzato il tetto del debito pubblico, ripristinando la “facoltà di indebitarsi” del Tesoro sui mercati. A termine. Il disastro è scongiurato fino al 7 febbraio. Neanche quattro mesi di respiro, poi teoricamente si potrebbe ricominciare daccapo. Tuttavia la destra ne esce così malconcia e umiliata, che pochi osano immaginare un replay di questo psicodramma tra pochi mesi. La Casa Bianca ha accolto l’accordo del Senato con soddisfazione ma senza esultare. «Raggiunto il risultato necessario, l’amministrazione pubblica ricomincia a funzionare» è il primo bollettino di vittoria del portavoce di Barack Obama, Jay Carney. Per il presidente il successo è netto, il testo bipartisan concordato al Senato e poi inviato alla Camera non contiene nessuna concessione alle tesi della destra, in particolare non passano i tagli alla riforma sanitaria contro la quale l’ala estremista del Tea Party aveva condotto la sua guerra santa.
Anche il leader dei democratici al Senato ha la vittoria magnanime, non vuole strafare Harry Reid: «Questo è un momento di riconciliazione nazionale». L’unica condizione che i repubblicani ritengono di avere strappato: da qui a fine anno la Casa Bianca e il Congresso dovranno aprire un tavolo negoziale per riforme strutturali della spesa pubblica che servano a risanare il bilancio nel medio-lungo termine. Un tavolo di grandi riforme che tuttavia lo stesso Obama auspica da tempo.
L’altro protagonista dell’accordo al Senato, il leader repubblicano Mitch Mc Connell, ammette che nel testo votato «c’è molto meno di quello che alcuni di noi avrebbero voluto». Il più esplicito tra i repubblicani è il leader storico John McCain, il senatore dell’Arizona che sfidò Obama nella corsa alla Casa Bianca nel 2008. «Abbiamo perso e basta», dice McCain.
Il più malconcio è lo Speaker of the House, John Boehner. Come presidente della Camera, dove i repubblicani hanno la maggioranza, lui è stato il capitano che ha condotto la sua nave al naufragio. Boehner non è riuscito neppure a tenere uniti i suoi. Il gruppo repubblicano si è lacerato in preda a spinte centrifughe. Quelli del Tea Party, fedeli all’ideologia radicale anti-Stato, non avrebbero esitato a condurre l’America fino al default. Fosse stato per loro, da oggi il Tesoro degli Stati Uniti poteva mancare il pagamento di pensioni, stipendi, oppure degli interessi sui titoli pubblici. I repubblicani moderati invece sentivano la pressione di Wall Street, degli industriali, di tutte le loro constituency tradizionali che invocavano la fine del gioco al massacro. Boehner, incapace di trovare una linea comune tra i suoi, ieri sera ha alzato bandiera bianca: ha dovuto rassegnarsi a recepire il testo di legge approvato al Senato. Lo ha messo ai voti a tarda notte, sapendo che sarebbe passato con più voti democratici che repubblicani: una vera debacle per un capo-partito. Il disastro che la destra si è auto-inflitta, ricorda un precedente: nel 1995 e 1996 un Congresso a maggioranza repubblicana impose un analogo shutdown al presidente Bill Clinton. Allora come oggi, i repubblicani precipitarono nei sondaggi perché l’opinione pubblica addebitò a loro i disagi per la paralisi di alcuni servizi pubblici. Se quel precedente vale, le prossime elezioni legislative di mid-term (novembre 2014) potrebbero segnare un arretramento dei repubblicani, come accadde nel 1996.
Wall Street ieri è tornata a esultare con un forte rialzo di tutti gli indici di Borsa: è un ulteriore condanna per il partito repubblicano che si è inimicato i suoi alleati storici nell’establishment finanziario. Peraltro Wall Street punta sul fatto che questa prolungata crisi ha rallentato la ripresa economica e quindi la Federal Reserve sarà costretta a prolungare più del previsto la “flebo monetaria” con acquisti di titoli pubblici che creano liquidità a buon mercato.
L’assenza di trionfalismo alla Casa Bianca non passa inosservata. «Non ci sono vincitori – dice Jay Carney – perché il popolo americano ha comunque pagato un prezzo. All’economia è stato inflitto un danno che si poteva evitare». I 450.000 dipendenti pubblici lasciati a casa senza stipendio per due settimane, lo spettro del default, tutto questo è stato “fabbricato” da un sistema politico guasto. Potenti lobby ultra-liberiste (la famiglia Koch, la Heritage Foundation) hanno spinto i parlamentari del Tea Party in una sfida folle: prendere in ostaggio il paese, trascinarlo sull’orlo di una inaudita crisi di illiquidità, per tentare l’impossibile rivincita contro la riforma sanitaria che ormai è legge dello Stato ed ha avuto perfino la benedizione della Corte suprema (dove la maggioranza dei giudici sono conservatori). Prima di rinsavire, l’America ha dovuto incassare le reprimende vigorose dal suo maggiore creditore estero, la Cina, nonché dal Fondo monetario internazionale e alcune agenzie di rating. Obama ne esce rafforzato, ma si capisce che non abbia l’umore per fare del trionfalismo.