Luca Mastrantonio, Corriere della Sera 17/10/2013, 17 ottobre 2013
L’ALLEGRO MONDO DEL VALLE DOVE LE REGOLE NON VALGONO
Il Teatro Valle di Roma, di proprietà del Comune e occupato illegalmente da lavoratori precari e benecomunisti che vogliono trasformarlo in una Fondazione per legalizzarne l’appropriazione, inizia oggi la sua stagione con Un Bès-Antonio Ligabue di Massimo Perrotta. Ma la vera partita non si giocherà sul palcoscenico, dove sono previsti Antonio Latella, Pippo Delbono, Davide Enia, Fausto Paravidino; bensì negli uffici del Prefetto di Roma, che nei prossimi mesi deciderà se approvare lo Statuto della auto-nominata Fondazione Teatro Valle Bene Comune (con una direzione artistica e un comitato di tre garanti, per uno dei quali si era fatto il nome dello scrittore Christian Raimo che, però, ha per ora declinato l’offerta).
Il punto non è più solo la (non) liceità di occupare uno spazio pubblico, sottrarlo alle istituzioni per restituirlo, nelle intenzioni dichiarate, alla comunità; con annessa, da destra, la richiesta di uno sgombero invocato da Fratelli d’Italia ma evitato da Gianni Alemanno quando era sindaco e pagava le bollette della luce agli occupanti, mentre il Comune e il ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo hanno riconosciuto validità all’esperienza del Valle. La questione è etica e d’ambito economico, riguarda le regole di competizione tra i teatri: sono uguali per tutti o no? E gli errori di sistema, tra diritti d’autore, burocrazia e fisco, vanno superati con nuove leggi o legalizzando le forzature?
Il Teatro Valle Occupato propone di far andare al minimo il motore del prestigioso teatro storico nel cuore di Roma — occupato tre anni fa mentre il suo destino era incerto. I soci fondatori hanno versato almeno dieci euro, volontaria è poi la cifra offerta da soci sostenitori, detti «complici», e soci «comunardi» (circa 5mila soci hanno raccolto un capitale sociale di 140 mila euro). Per questa Fondazione, però, il modello è l’autogestione. L’ingresso è addirittura libero, con una «quota di complicità suggerita» di 8 euro: soluzione a metà tra l’obolo sacro e un biglietto mascherato da elemosina (espressione usata da Goffredo Fofi, a sinistra, quando criticò gli occupanti). L’incasso sarebbe gestito secondo una «cooperazione reciproca» che prevede il 2,5 per cento agli autori e un 5 per cento in una cassa-cuscinetto per quelli che non riescono a coprire le spese. Per ogni componente della compagnia ospitata, tra attori, tecnici e altro, è prevista una paga di circa 65 euro.
La parte più controversa, tutta politica, riguarda non le entrate ma la riduzione delle uscite: il modello prevede che non si paghino i diritti Siae, gli oneri fiscali per l’agibilità, i vigili del fuoco... le cosiddette «spese vive» che, invece, gli altri teatri sostengono (pur criticandone molti aspetti): siano pubblici come il Teatro Argentina o privati come il Teatro dell’Orologio, entrambi vicini al Valle. Concorrenza sleale? Non è stata rinvenuta da Stefano Rodotà e Ugo Mattei, ispiratori di un’esperienza che ha visto in prima linea anche volti noti come l’attore Fabrizio Gifuni e il cantante Jovanotti. Rodotà va oltre, appoggia questa trasformazione di una pratica sociale illegale, come l’occupazione di un bene patrimoniale pubblico, in una istituzione: «Un modello dotato di un rigore giuridico impeccabile», a difesa della «cultura», bene comune, come la «natura» in Val di Susa.
Luca Mastrantonio