Lanfranco Palazzolo, Il Tempo 17/10/2013, 17 ottobre 2013
QUANDO L’AMNISTIA SALVÒ IL FONDATORE
Per Eugenio l’amnistia non fa rumore. Ci sono personaggi politici fortunati che ottengono i benefici dell’amnistia senza che nessuno dica nulla o sollevi alcuna questione. È il caso del grande maestro del giornalismo italiano Eugenio Scalfari. Infatti il padre di Repubblica ha avuto problemi con il pretore ai tempi in cui, eletto nelle file del glorioso Partito socialista italiano, era parlamentare della Repubblica italiana.
Tutto inizia nel corso di una tiepida mattina milanese nei pressi della stazione Centrale di Milano. Quel giorno l’onorevole Scalfari accompagna la famiglia in partenza, ma non trova un posto per la sua Volkswagen. Un’autentica disdetta per l’uomo che, con uno scoop, ha denunciato dalle pagine de L’Espresso il presunto golpe, forse mai progettato, del generale De Lorenzo.
Il deputato-giornalista non si perde d’animo e dopo diversi giri trova posto, in sosta vietata, nella galleria carrabile della stazione Centrale. L’operazione è compiuta. L’onorevole socialista comincia a scaricare i bagagli e chiama il facchino. Ma dal nulla sbuca il vigile urbano Gianfranco Baroni, in servizio presso la sezione mandamentale di Porta Garibaldi che gli contesta la sosta vietata in un parcheggio riservato ai carabinieri in servizio presso la stazione.
Tra un bagaglio e l’altro, Scalfari nota il vigile mentre prende il numero di targa. Il deputato non contesta la multa, in fondo si tratta di pochi spiccioli. Scalfari si rivolge al vigile per chiedergli di fargli scaricare solo i bagagli e accompagnare la famiglia al binario. Ma Baroni è irremovibile, soprattutto quando si accorge dell’accento romano di Scalfari: «Queste cose si fanno a Roma e non a Milano. Lei deve andarsene».
Per il giornalista-parlamentare si tratta di un autentico affronto. Scalfari risponde che quel modo di fare è inaccettabile. Ma in quel momento sopraggiunge un altro personaggio in abiti civili che parcheggia la macchina indisturbato ed entra in un ufficio salutando il vigile Eugenio non ci vede più dalla rabbia.
Secondo l’onorevole socialista, il personaggio entrato in scena sarebbe il questore di Milano Marcello Guida che, rivolgendosi al vigile dice: «Sono il questore, torno tra poco». In pochi secondi le parti si ribaltano. Scalfari diventa l’accusatore del vigile urbano e chiede conto del privilegio accordato al questore Guida e non al deputato Scalfari. Il vigile risponde che quella persona è autorizzata a parcheggiare in quel posto, ma lui non può. Il vigile perde la pazienza e chiede a Scalfari la patente. E qui le parti si ribaltano nuovamente.
La patente del Fondatore è scaduta. L’onorevole deputato non può circolare con quel documento per di più privo di vidimazioni. Il vigile non può far altro che ritirargli la patente. Ma Scalfari è irremovibile. Nella richiesta di autorizzazione a procedere arrivata a Montecitorio il 7 agosto 1970 (Doc. IV n. 125) è riportata la sua frase all’indirizzo di Baroni: «Lei non mi ritira un bel niente, anzi sarebbe meglio che facesse una cura ricostituente anziché fare contravvenzioni perché lei non sa chi sono io: io sono l’onorevole Eugenio Scalfari».
Il deputato è indignato, prende il numero di fregio del vigile, e lascia il pubblico ufficiale sul posto per accompagnare i familiari al binario. Ma quando il salvatore della democrazia italiana ritorna dove è parcheggiata la sua Volkswagen ritrova Baroni. Nel frattempo il vigile ha telefonato al capo dei vigili urbani di Milano, il dottor Pastorino, che approva il suo operato. Lo stesso giorno il pretore di Milano viene informato del caso che vede Scalfari violare l’articolo 341 del Codice penale (Oltraggio a pubblico ufficiale) e l’articolo 88 delle norme sulla circolazione stradale (Guida di autoveicoli con patente scaduta di validità).
Il giorno successivo, quando lo scontro arriva sui giornali, entra in scena il questore di Milano Guida. Il responsabile dell’ordine pubblico nel capoluogo lombardo fa sapere a Scalfari che, all’ora dello "scontro", lui si trovava nel suo ufficio in via Fatebenefratelli. Eugenio Scalfari è una furia: scrive al sindaco di Milano Aldo Aniasi che mobilita immediatamente l’assessore al traffico Bellini per scoprire, con un’inchiesta, cosa è accaduto nella tarda mattinata del 31 marzo 1970. Scalfari si sente umiliato. Ecco cosa scrive ad Aniasi: «È probabile che lei sia al corrente del piccolo fatto di cronaca che mi ha visto protagonista - assieme al vigile urbano n. 1442 - alle 12.40 del 31 marzo. Premesso che non faccio alcuna questione sulle contravvenzioni che mi sono state contestate, anche perché la questione, se c’è, riguarda ormai il pretore dinanzi al quale verrà giudicata la vertenza, cui certo non causerà alcun impedimento né ritardo la mia qualifica di membro del Parlamento, passo a elencarle i problemi di principio dei quali le facevo prima cenno: 1) Un vigile di Milano apostrofa un cittadino con automobile targata Roma al quale ha in quel momento elevato contravvenzione, dicendogli: "Non creda che i romani possano dettar legge a Milano". È accettabile questo modo di comportarsi senza motivo? 2) Lo stesso vigile vede arrivare un’automobile e scenderne una persona che si qualifica come il questore di Milano. Mentre sta multando il semplice cittadino (che altro non è il deputato di fronte alla legge) quel vigile consente la identica irregolarità al questore senza applicargli alcuna sanzione. 3) Al cittadino che protesta e pretende che il questore sia sottoposto alla legge come tutti gli altri, lo stesso vigile risponde concitatamente che solo lui è giudice di chi deve essere multato e chi no. Ad ulteriori proteste, risponde citando l’esistenza di un’ordinanza prefettizia che assicurerebbe al questore uno speciale privilegio, ordinanza naturalmente del tutto inesistente. 4) Pare ora, a quanto apprendo, che la persona qualificatasi in mia presenza come questore di Milano non fosse affatto lui. Così almeno afferma il dottor Guida e questa volta non c’è ragione di non credergli. Sicché, ora sappiamo che basterà qualificarsi ad un vigile come questore di Milano, pur senza esserlo, per andare sciolto dal rispetto di leggi e regolamenti».
Ma il mistero sul falso questore dura poco. Nel pomeriggio del 2 aprile 1970 tutto si chiarisce. Il personaggio apparso sulla scena della rissa verbale tra il vigile Baroni e Scalfari è il dottor Ruggero Riccitelli, medico aggiunto del compartimento ferroviario di Milano. Al momento di entrare negli uffici della stazione, il dottor Riccitelli si era rivolto al vigile Baroni dicendo: «Sono il dottore. Torno tra poco». Il dottore Riccitelli racconta: «Scesi dalla vettura e dissi al vigile, che era poco distante: "Sono il dottore dell’ambulatorio, debbo per forza lasciarla qui". Del resto - prosegue il dottore - io sono medico condotto e ho il disco rilasciato dall’Ispettorato per le facilitazioni nei parcheggi; in più ho il regolare permesso della direzione delle Ferrovie. L’ambulatorio della stazione Centrale, in ogni caso, deve essere "presenziato", e quando non troviamo posto nei nostri parcheggi, solitamente lasciamo l’auto nel primo spazio disponibile, avvertendo il vigile o l’agente di servizio. Cosi feci quel giorno. Può darsi che l’onorevole Scalfari abbia sentito male, e sia caduto nell’equivoco udendo che io dicevo: "Sono il dottore"; probabilmente ha capito: "Sono il questore": ma se è così non è colpa mia. Io poi mi allontanai, perché dovevo correre in ambulatorio e non so quel che sia accaduto dopo».
A quel punto Scalfari diventa indifendibile. Ma sarebbe stato un peccato mortale portarlo davanti al giudice dopo averlo sottoposto all’umiliazione dell’autorizzazione a procedere. La richiesta alla Camera per il procedimento contro Scalfari arriva ad agosto, ma si tratta solo di carta straccia. Il 22 maggio 1970 entrano in vigore l’amnistia e l’indulto firmate dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Nella prima bozza del ddl il Consiglio dei ministri aveva proposto un’amnistia per i reati politici e comuni avvenuti fino al 31 dicembre 1969. Ma, nel corso della discussione sul provvedimento, la Camera e il Senato cambiano la data per l’amnistia al 6 aprile 1970, data di presentazione del provvedimento alle Camere. Un’autentica fortuna per Scalfari che rientra tra i beneficiari del provvedimento per 6 giorni.
Questo spostamento è decisivo per impedire al futuro maestro del giornalismo italiano l’umiliazione del giudizio davanti al pretore. I reati che vengono cancellati sono di tipo politico fino a 5 anni di reclusione, compresa la detenzione e il porto d’armi. È bene ricordare che questo provvedimento viene approvato pochi mesi dopo la strage di piazza Fontana in piena emergenza terrorismo. Nel calderone dell’amnistia entrano i reati comuni fino a 3 anni. Nel resoconto sul voto parlamentare sul provvedimento, il quotidiano La Stampa del 23 maggio 1970 riporta che a favore dell’amnistia votano democristiani, socialisti, gruppo al quale appartiene Eugenio Scalfari, socialisti unitari, repubblicani, comunisti e socialproletari. Contro il provvedimento si esprimono i liberali, i monarchici e i missini. L’onore di Eugenio è salvo. E nessuno ha il coraggio di dire nulla all’indirizzo del grande giornalista.