Pierangelo Maurizio, Libero 16/10/2013, 16 ottobre 2013
POVERI TRAVAGLIO E SANTORO LA TRATTATIVA È SOLO UN ABBAGLIO
Che strano Paese siamo. Parliamo e straparliamo delle Ardeatine, perché uno degli esecutori è morto alla veneranda età di 100 anni, ma è vietato parlare dell’attentato, e delle sue finalità, voluto dal Pci che scatenò quella carneficina.
Allo stesso modo per cinque anni abbiamo riempito giornali con un’indagine che ha crocefisso i carabinieri del Ros che catturarono Riina permettendo allo Stato messo in ginocchio da Cosa Nostra di risollevarsi, fatti passare come le pedine di un bieco inciucio coi mammasantissima, ci siamo dipinti come se l’Italia fosse stata governata a braccetto con Provenzano da quella quintessenza di ogni bassezza del potere che erano la Dc e il Psi, che poi hanno passato il testimone a quell’altro pozzo del Male noto come Silvio Berlusconi, con Forza Italia nata per volontà dei boss. Dopo che il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu a luglio sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato, adesso che sono state depositate le motivazioni nelle quali il Tribunale di Palermo dice che sostanzialmente della fantasiosa costruzione su cui l’ex pm Antonio Ingroia ha costruito la sua notorietà non resta in piedi niente, cala il silenzio generale. Si fischietta, in generale si fa finta di niente, in particolare tra i megafoni della vulgata al grido di «È Stato la mafia».
Le motivazioni della IV sezione del Tribunale palermitano, presieduta da Mario Fontana, senza tralasciare una virgola, hanno demolito l’accusa: «Il quadro probatorio … si presenta spesso, nei vari segmenti che lo compongono, incerto, talora confuso ed anche contraddittorio …», le indicazioni che ne scaturiscono sono «frammentarie », mantenute in piedi solo a costo «di elaborati ragionamenti ». Come dire che sarebbe stato sufficiente un po’ di buon senso per evitare di dar vita ad un processo che non avrebbe nemmeno dovuto cominciare, prima di aggrovigliare una matassa sempre più confusa.
I giudici non hanno tralasciato alcun aspetto. La sentenza è di oltre 1.300 pagine. E’ impressionante la mole di documenti acquisiti, su e giù per l’Italia, da Palermo a Firenze, da Torino a Caltanisetta. Una documentazione imponente ed importante, sugli ultimi 20 anni della nostra storia, che si presta più ad una lettura sul piano politico che su quello giuridico.
Certo, c’è anche il contentino di “qualche opacità” che i giudici intravedono nel comportamento tenuto dal Ros guidato dal generale Mori. In 1.300 pagine di sentenza. La foglia di fico a cui si è subito abbarbicato da ieri Il Fatto Quotidiano.
In linea puramente teorica Bernardo Provenzano avrebbe potuto anche essere arrestato in quel di Mezzojuso il fatidico 31 ottobre 1995, scrivono i giudici. Ma in pura teoria. Perché non c’è alcuna certezza che l’incontro tra l’infiltrato Luigi Ilardo, fonte del grande accusatore, l’ex colonnello Michele Riccio, e il boss Provenzano ci sia mai effettivamente stato. Di certo c’è che Riccio, uno dei due testi chiave dell’accusa, colui che dal 2001 ha accusato il vertice del Ros di avergli impedito di catturare Provenzano, secondo i giudici è caduto in vistose contraddizioni e/o ha mentito, ai magistrati allora nel ’95 e adesso nel corso del processo.
Spiace dirlo all’ex pm ma i giudici smentiscono l’uscita fatta da Ingroia che quando, a metà luglio, è stata emessa la sentenza, aveva messo le mani avanti e aveva - lui - anticipato le motivazioni, per la gioia de Il Fatto Quotidiano: i carabinieri del Ros quel giorno non arrestarono il boss dei boss, ma non c’è la prova del dolo, cioè che agirono consapevolmente per favorire Cosa Nostra. La sentenza arriva a tutt’altre conclusioni.
Di certo, il presunto mancato intervento a Mezzojuso, in un vertice mafioso che probabilmente non c’è mai stato, non è stata la tappa che ha garantito l’impunità di Provenzano, in cambio della cattura di Riina e della sconfitta dell’ala stragista, nell’ambito di una sordida trattativa avviata con gli incontri dell’allora colonnello Mori e del capitano De Donno con l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. L’ex ministro dell’Interno, il dc Nicola Mancino, non ha tirato le fila del patto inconfessabile, la Democrazia cristiana non ne è stata il terminale. Anzi, sempre sul piano storico-politico, bisognerà cominciare a chiedersi se la Dc non la vittima della stagione stragista, visto che le stragi mafiose del ’92 e del ’93 furono decisive per far saltare definitivamente il quadro politico del Paese.
Ma torniamo alla sentenza. Non c’è la benché minima prova che Paolo Borsellino il 19 luglio ’92 saltò in aria con la sua scorta perché venne a sapere della trattativa iniziata dai carabinieri con la mafia, ma quell’attentato era stato predisposto da tempo. Basterebbe questo per chiederci che tipo di informazione abbiamo avuto in questi anni.
Ma c’è qualcosa di più. L’altro teste chiave dell’accusa, Massimo Ciancimino, viene stroncato e definito «incline alle vanterie» e alla «manipolazione di documenti». Lui e Riccio hanno mentito. Il Tribunale ha inviato gli atti alla Procura perché valuti eventuali di ipotesi di reato a loro carico. Cioè si deve valutare se hanno mentito e calunniato deliberatamente o no, e perché. E forse si riuscirà a capire, sempre sul piano storico-politico, se c’è stata un regia. Bisogna dirlo con le dovute maniere al giro di Servizio pubblico e dintorni. Povero Santoro, povero Ruotolo, povero Travaglio. Anzi no: poveri noi.
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