Gad Lerner, la Repubblica 16/10/2013, 16 ottobre 2013
INTERnazionale– Non è per ingratitudine nei confronti dei Moratti che sugli spalti nerazzurri di San Siro la vendita della squadra all’indonesiano Erick Thohir raccoglie unanime consenso
INTERnazionale– Non è per ingratitudine nei confronti dei Moratti che sugli spalti nerazzurri di San Siro la vendita della squadra all’indonesiano Erick Thohir raccoglie unanime consenso. Dal 1908 l’Inter si chiama, non a caso, Internazionale Football Club. E i quattordici anni del periodo autarchico in cui fu costretta dal regime fascista a snaturarsi come Ambrosiana, non furono certo fra i più gloriosi. La grande Inter rifondata mezzo secolo fa da Angelo Moratti, fu condotta alla conquista del mondo da un mister che esibiva due H per iniziali, Helenio Herrera, e che si esprimeva in un italiano maccheronico. In attacco schierava fra gli altri il suo primo giocatore di colore, Jair, chiamato familiarmente dalla moglie del presidente, Lady Erminia, el negrett. Poi nel 2010, dopo una troppo lunga attesa, Massimo Moratti coronò col triplete il suo sogno di gloria affidandosi a un giramondo portoghese, Josè Mourinho, che guidava una formazione interamente di stranieri, con l’unica eccezione di Materazzi. Ambrosiana o indonesiana? Il dilemma non si pone per una squadra che ha il cosmopolitismo nel suo Dna. O meglio, per dirla con la rima del compianto Peppino Prisco, applaudito ogni domenica durante l’esecuzione dell’inno di Elio e le Storie Tese, la squadra che “serie A è il nostro Dna”. Ecco, non è ingratitudine ma semmai curiosità lo stato d’animo con cui la tifoseria vive la rivoluzione del calcio italiano, l’incognita del riccone sconosciuto in arrivo dall’emisfero australe, cioè dall’altra metà del pianeta. Semmai, confessiamolo, serpeggia un certo scetticismo introiettato con la sofferenza per via delle campagne acquisti spericolate dell’era morattiana in cui, per ogni campione buono, ci siamo messi in casa decine di improbabili bidoni pagati a peso d’oro. Questo Thohir sarà un Ronaldo o un Gresko? Vallo a sapere… È un musulmano, questo miliardario che con 250 milioni ripaga la famiglia Moratti solo di una quota marginale della ricchezza profusa a fondo perduto nell’Inter. Lo sottolinea nelle sue prime parole da proprietario, sottolineando che la firma del contratto giunge per lui in un giorno speciale, L’Eid al-Adha, la festa del sacrificio: “Una benedizione”. Ma non veniteci a parlare di invasione islamica perché qui semmai è in atto l’esperimento suggestivo di un’integrazione fra culture lontane, l’opposto di un conflitto di civiltà: un prodotto della civiltà occidentale come il calcio professionistico si fa largo nel più popoloso paese musulmano, 240 milioni di abitanti, gettando un ponte fra Milano e Giacarta. Tifosi italiani e tifosi asiatici diventeranno confratelli in una fede certo pagana, ma capace di cementare inedite unioni, lubrificate dal marketing e dai diritti televisivi. Dentro al catino di San Siro (o di uno stadio nuovo?) continuerà a risuonare il coro “Milano siamo noi” riadattato in salsa orientale. Chissà se farà bene al calcio la filosofia di vita giavanese (cioè dell’isola di Giava che, insieme a Sumatra, è la più grande dello Statoarcipelago composto da 17.508 pezzi di terra sparpagliati nell’oceano). Il premio Nobel V. S. Naipaul la sintetizzava così, alla voce “paternalismo”, nel suo libro Fedeli a oltranza: “Una combinazione di feudalesimo, paternalismo e nepotismo. Si deve sapere cosa dire e cosa tacere. Si deve conoscere la propria posizione sociale. A volte le qualità individuali non contano”. Mazzarri prenda nota. Mai come oggi la geopolitica del calcio denota il capovolgimento di baricentro del pianeta Terra, provocato dal massiccio spostamento dei capitali finanziari. Perché è vero che la Roma capolista ha preceduto l’Inter nella strategia della de-nazionalizzazione. Ma si è pur sempre affidata a meno esotici investitori americani. Ora si sente dire che anche Berlusconi, se potesse, cederebbe la maggioranza delle quote del Milan a uno sceicco arabo o a un oligarca russo. Non dispiacerà agli interisti essere arrivati primi in questa corsa per mantenere il calcio italiano ai livelli della competizione globale: benché nelle frange ultrà delle tifoserie alligni il campanilismo più bieco, essi sono i primi a esaltare il campione venuto da lontano. Ululando magari “buuu” al nero della squadra avversaria, nel mentre beatificano il loro goleador di colore. Il mondo capovolto, l’Italia ridotta a periferia. Questa è la realtà con cui Moratti ci costringe a fare i conti. Del resto l’Inter non è certo il primo marchio del made in Italy a finire sotto il controllo straniero: la Milano da bere degli anni Ottanta è già in buona parte finita in mano ai forestieri. E allora è difficile dare torto al presidente dell’Inter quando fa notare che in un calcio giunto a pagare 100 milioni di euro un solo calciatore, come il gallese Gareth Bale, i bilanci deficitari del nostro pallone nazionale ci condannerebbero alla definitiva marginalità. Solo la Germania riesce a mantenersi ai vertici del calcio internazionale senza ricorrere agli investimenti dei nuovi ricchi; mentre le “grandi” spagnole sono ormai prossime al patatrac finanziario. Francia e Regno Unito sono già territorio di caccia dei vari al-Khelaifi, Abramovic, Mansur al-Nahyan. Non a caso il Qatar ha ottenuto di organizzare sul suo inospitale territorio desertico i campionati mondiali del 2022. Certo, fra i nuovi potenti del calcio non mancano gli avventurieri, come quel Kerimov che nel 2011 strappò proprio all’Inter il centravanti Eto’o semplicemente raddoppiandogli l’ingaggio da 10 a 20 milioni, e con ciò “deportandolo” in Daghestan. Già allora, in pieno collasso dell’economia mondiale, percepimmo come il massiccio spostamento della ricchezza finanziaria avrebbe sconvolto la fornitura di quell’oppio dei popoli che resta il football. Così siamo costretti a fare buon viso a cattivo gioco. E a chiederci con Moratti, il petroliere spendaccione che ha esaurito le riserve petrolifere, se all’Italia possa rimanere un po’ di spazio in questa nuova spartizione. Siamo una boutique di giacimenti artistici, di buon cibo e di eleganza lussuosa. Ma siamo anche una delle patrie del calcio d’eccellenza deturpato dagli scandali e dalle curve violente, fino a cumulare debiti insostenibili. Se torneremo dominatori del mondo, sarà di sghimbescio, per interposti esotici finanziatori. Moratti è stordito, vive addolorato questo passaggio storico. Ricordo quando mi spiegava con la massima serietà — in pieno regime berlusconiano — che a Milano tifare Inter significava esprimere una visione del mondo alternativa. Romanticismo fuori luogo, probabilmente, irrazionale come buona parte delle sue scelte di presidente tifoso. Ora tocca al padrone globale. Il comando passa agli indonesiani che neanche lo sanno chi furono Peppino Meazza, Armando Picchi, Giacinto Facchetti. Ignorano le ore d’attesa nella nebbia su spalti non ancora numerati, ché se si arrivava tardi a San Siro non si vedeva quasi niente. Ma nonostante ciò trascineranno, eccome, i vecchi tifosi interisti a rinnovare il loro abbonamento.