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 2013  ottobre 16 Mercoledì calendario

MIGRANTI: COM’È FACILE DIRE DOPO QUELLO CHE BISOGNAVA FARE PRIMA


In relazione alla terribile tragedia dei migranti somali ed eritrei si sente spesso dire, anche da vertici istituzionali, che bisogna «intervenire sui Paesi di provenienza». Mi domando se costoro sappiano di cosa si stia parlando: intervenire su Isaias? Sul vacillante governo di Mogadiscio? O sugli Shabaab? E con quali strumenti? O con quali richieste? Magari di trattare meglio i loro popoli? Mi aiuti a capire.
Davide Silvestri
dav.silve@libero.it

Caro Silvestri,
Lei ha ragione. Dopo ogni incidente o catastrofe, appaiono subito sulla scena quelli che sanno perfettamente ciò che sarebbe stato necessario fare per evitarli. Sanno di potere contare, in queste circostanze, sulla istintiva diffidenza della pubblica opinione per i poteri pubblici e ne approfittano per conquistare così un poco di notorietà. Anch’io ho constatato che in molte dichiarazioni e recriminazioni, ascoltate negli scorsi giorni sulla bocca di persone zelanti e saccenti, le condizioni dell’altra sponda erano ignorate. Penso che sulla tragedia di Lampedusa occorrano un rapporto alle Camere del ministro dell’Interno e una rapida verifica delle misure adottate per migliorare la sorveglianza del mare e l’accoglienza. Ma sulla possibilità di fare accordi efficaci con i regimi politici dell’Africa del Nord e del Levante non mi faccio illusioni. Per almeno due motivi.
In primo luogo nessuno di questi Stati è in grado di esercitare un pieno controllo delle sue frontiere meridionali, da cui provengono generalmente i clandestini del Corno d’Africa e di altre regioni del continente. Non potevano farlo prima delle rivolte arabe, quando le loro polizie e le loro forze armate erano in grado di perlustrare il lungo confine col deserto. Possono fare ancora meno in un momento in cui esercito e polizia devono restare nelle città per occuparsi principalmente di ordine pubblico o combattere contro le milizie islamiste del Sinai o del Sahel. Le zone più incontrollabili, naturalmente, sono quelle in cui è in corso una guerra civile, come la Siria, o in cui il potere, come in Libia, è solo nominalmente esercitato dal governo centrale.
Non credo in secondo luogo che i nostri dirimpettai, se esistono e sono disposti a firmare accordi con i governi europei, abbiano davvero l’intenzione di rispettarli. Durante l’ultimo governo Berlusconi, Gheddafi si accordò con l’Italia, nel quadro di intese che comportavano molte altre clausole, a trattenere i migranti provenienti dall’Africa e a riportarli in Libia se arrestati in mare dopo la partenza dalle sue sponde. L’accordo era molto discutibile sul piano umanitario, ma era pur sempre fondato sul ragionevole principio che ogni Paese ha l’obbligo di occuparsi dei propri clandestini senza cercare di sbarazzarsene a danno di altri (lo stesso principio a cui si ispira in questi giorni l’Australia nei confronti dell’Indonesia). Oggi, tuttavia, la tentazione di passare la patata bollente è molto forte; e a quella tentazione, del resto, cedette anche il ministro degli Interni italiano quando cercò di scaricare sulla Francia i clandestini provenienti dalla Tunisia. Figurarsi i poveri governi dell’Africa del Nord e del Levante, interamente occupati dal tentativo di sopravvivere.
Sono queste le ragioni, caro Silvestri, per cui esito a formulare accuse contro i governi. Mi chiedo che cosa farei al loro posto e non sempre riesco a darmi una risposta soddisfacente.