Ranieri Polese, Corriere della Sera 16/10/2013, 16 ottobre 2013
PRATOLINI, LA SOLITUDINE DOPO L’IMPEGNO
Al numero 1 di Via dei Magazzini, nel cuore di Firenze, c’è una lapide che ricorda il luogo dove nacque Vasco Pratolini, e dove visse, fino a quando, a tredici anni, lui e la nonna dovettero cambiare casa. E andare in quella via del Corno che sarebbe diventata la protagonista di Cronache di poveri amanti . Sulla lapide di via dei Magazzini si legge: «In questa casa dell’antico centro nacque il 19 ottobre 1913 Vasco Pratolini che a narrare una storia italiana trasse perenne alimento dall’amore per la sua Firenze». Se non fosse per la data, con quell’italiano ampolloso e involuto, potrebbe essere una delle tante epigrafi ottocentesche. Ma forse quel linguaggio fuori tempo massimo — si era nel 1996, cinque anni dopo la morte dello scrittore — voleva dirci un’altra cosa: che cioè Vasco Pratolini e i suoi romanzi oramai appartenevano al passato. Erano usciti «dai circuiti di lettura», come diceva Luigi Baldacci; che nel ‘97, un anno dopo la posa della lapide, pubblicava sul «Corriere» un articolo intitolato «Chi parte per il Duemila?». Dove, fra gli scrittori a cui veniva negato il visto di transito per il nuovo secolo, indicava proprio Pratolini, uno che, a differenza dei nichilisti e degli apocalittici alla moda, «al bene e al meglio ci ha creduto». E così Walter Siti conclude la sua introduzione alle Cronache ristampate dalla Bur: «N on possiamo dimenticare che la generosa illusione di credere nell’autocorrezione dell’umano costò a Pratolini, nell’ultima parte della sua vita, oltre vent’anni di afasia».
Anche il mercato certificava questo tramonto: nel 2010 Mondadori, il suo editore dal 1960 (Lo scialo ), che aveva ristampato negli Oscar tutti i suoi libri precedenti e gli aveva dedicato due Meridiani, non rinnovava i diritti di pubblicazione. Segno che Pratolini non vendeva più tanto, o almeno non rientrava più nei piani della casa di Segrate. Interessata a creare un catalogo di classici del Novecento italiano, la Bur di Rizzoli ha rilevato i diritti e dal 2011 manda in libreria sette volumi, ciascuno corredato da importanti introduzioni (Walter Siti, Goffredo Fofi, Antonio Pennacchi, Clara Sereni, Massimo Raffaeli, Francesco Piccolo; a giorni esce La costanza della ragione con prefazione di Ermanno Paccagnini). Non cifre d’alta classifica, se si confrontano ai successi di un tempo, aiutati anche dai film tratti dai romanzi (dopo Moravia Pratolini è l’autore più sfruttato dal cinema: 10 film per il grande schermo, 4 per la tv, che ha realizzato uno sceneggiato da Le ragazze di San Frediano nel 2007 senza invertire la tendenza).
In questo clima, Firenze si prepara a ricordare i cent’anni dalla nascita con due convegni, dal 16 al 19 ottobre. Uno all’Università, l’altro al Gabinetto Vieusseux che custodisce il fondo Pratolini. Ci sarà anche una selezione di film, da e di Vasco Pratolini. Basterà celebrare l’anniversario per riportare Pratolini nei circuiti di lettura?
L’AVVENTURA DI METELLO — La sfortuna di Pratolini era iniziata molto tempo prima della sua morte. Nel 1955, con l’uscita di Metello , primo capitolo di quella «Storia italiana» che sarebbe proseguita con Lo scialo (1960) e Alle goria e derisione (1966), abbracciando gli anni dalle prime lotte operaie di fine ‘800 fino alla guerra partigiana. Vincitore del Premio Viareggio, il romanzo viene salutato dai critici ufficiali del Pci come il passaggio dal neorealismo al realismo, dalle cronache al romanzo storico. Ma subito, contro i mandarini dell’ortodossia Salinari e Alicata, insorge una fronda di sinistra che rimprovera al libro un populismo generico e mancanza di coscienza di classe. Il più feroce è Carlo Muscetta a cui si debbono giudizi di questo tenore: il protagonista, il muratore Metello Salani, è presentato «più in camera da letto che nella Camera del lavoro». E ancora: «Metello si realizza come personaggio soprattutto nell’intimità con le ragazze (...) anziché realizzarsi nella storia del movimento operaio». Su questa scia, Franco Fortini (Metello Salani non è un socialista, è solo un piccolo borghese; il romanzo è l’esempio di una concezione socialdemocratica della funzione della letteratura: funzione edificante, emotiva, l’opposto della funzione critico-educativa della letteratura rivoluzionaria), Italo Calvino, Rino Dal Sasso, Alberto Asor Rosa. Metello diviene un caso.
Ferito dal fuoco amico, Pratolini non dimenticherà. A metà degli anni 60 Pietro Germi, che vuole trarre un film dal romanzo, propone alcuni cambiamenti alla trama. Lo scrittore protesta («Non voglio un film socialdemocratico») e Germi replica dicendo che lui non vuole rendere «un servizio al Pci». Al che Pratolini s’infuria e tra i due volano parole grosse. Nell’85 così lo scrittore ricordava quel litigio: «Fare il servizio al Partito comunista era quello che i nemici dicevano di Metello ma poi anche i comunisti lo stroncavano per conto loro». Il libro comunque ha un grande successo di vendite, ma il secondo volume della trilogia, Lo scialo , (la degradazione morale della borghesia che aderisce al fascismo), nonostante i buoni risultati in libreria, suscita di nuovo polemiche. E stavolta i difensori di Metello come Salinari sono i più feroci: «Brutto noioso e sporco». I due romanzi pubblicati negli anni 60, La costanza della Ragione (1963) e la conclusione della trilogia Allegoria e derisione (1966) non riscuotono altrettanta attenzione: nel frattempo, il furore iconoclasta della neoavanguardia — il Gruppo 63 — ha distrutto l’idea stessa di romanzo rendendo la vita difficile a quanti, Cassola e Bassani per esempio, ci credono ancora. Oramai non è più in gioco la funzione rivoluzionaria della letteratura, ma certo ai nuovi sperimentalisti la grande narrazione di impianto realistico proprio non interessa più. E il risultato, per Pratolini, è un lunghissimo silenzio.
UN LUNGO VIAGGIO — Clara Sereni ricorda di aver letto Pratolini a quindici anni. Nella dedica di una sua raccolta di poesie, Cesare Viviani scrive: «A Vasco Pratolini il primo autore che lessi a tredici anni». A quell’età, allora, si leggeva Il quartiere , Cronaca familiare , Cronache di poveri amanti , che per molti sono il Pratolini migliore. È qui che l’autobiografia sentimentale si sposa con la descrizione della vita nei quartieri popolari di Firenze, gli amori brevi, il confronto amaro con la realtà del regime fascista. C’è molta autobiografia, è vero; c’è anche però «un ritratto di citta» quale non possiede altrimenti l’Italia contemporanea, come scriveva Gianfranco Contini. Un risultato tanto più singolare se si pensa che, dal 1939, lo scrittore non ha più abitato a Firenze, ma a Roma, Napoli e poi di nuovo fino alla fine Roma. E che quei libri li ha scritti a Roma e Napoli.
Certo, Pratolini era anche «la denuncia delle ingiustizie, lo scontro fra buoni e cattivi, e alla fine il sol dell’avvenire o almeno la speranza che sarebbe spuntato» come scrive Clara Sereni e per questo lei preferiva Metello , come Antonio Pennacchi che rincara la dose rivendicandone l’attualità.
Ma se, come accadde nel 1955, l’essere schierato nelle file del Pci non bastò a metterlo al riparo dalle critiche, c’è anche da dire che non era, Pratolini, organico in senso stretto. Anzi, già l’anno dopo il fatale 1956 lui sta dalla parte degli insorti di Budapest. Anche perché la sua maturazione politica era avvenuta in nome di una «rivoluzione popolare» come scriveva già sulle pagine della rivista «Campo di Marte», organo sì dell’ermetismo ma anche del cosiddetto fascismo di sinistra che auspicava il superamento della borghesia decadente. La rivista ebbe breve vita, nel 1939 fu soppressa e Pratolini lasciò Firenze per andare a Roma a lavorare al ministero della Cultura Popolare con Argan e Cesare Brandi, conservando i ricordi del quartiere e la fedeltà a quel popolo minuto, oppresso ma non sconfitto.
Compiuto il suo viaggio attraverso il fascismo, Pratolini nel 1944 ha fatto la scelta di stare, a Roma, con i partigiani di Ponte Milvio. Ma di quella lunga traversata qualcosa, negli anni, continuava ad affiorare, riaprendo polemiche e ferite. Per esempio un mandato di pagamento del Minculpop dopo l’8 settembre, già al tempo della Repubblica di Salò; o la voce ricorrente della sua collaborazione con l’Ovra, la polizia politica del regime. Poi, nel 2003, lo storico Mauro Canali pubblica dei documenti trovati negli archivi di Washington da cui risulta che lo scrittore fu al libro paga dell’Ovra dal 1939 al 1940. A difendere Pratolini ormai morto è l’amico Alessandro Parronchi che sì, ammette, «in quei tempi di fame» Vasco aveva accettato, ma non fece male a nessuno. Velenose polemiche letterarie: si ha l’impressione che a pagare il prezzo più alto sia stato proprio Pratolini. A cui nessuno ha voluto concedere l’indulgenza che Brecht raccomandava a chi sarebbe venuto dopo.