Francesco Battistini, Corriere della Sera 16/10/2013, 16 ottobre 2013
LUI SAREBBE FELICE DI ESSERE ODIATO SEPPELLIAMOLO IN SILENZIO SENZA PERDONO
«Non so se vale la pena di fare tanto rumore, intorno alla morte d’un nazista come Priebke. Non so nemmeno quanto conti il luogo e il modo in cui viene sepolto. Alla fine, da qualche parte deve pur essere messo. Io non proclamo la vendetta su un morto e credo che la gente non dovrebbe chiedere vendetta. Lui non è energia: è solo cenere e tenebre».
Anche a Yad Vashem, il memoriale ebraico dell’Olocausto sulle colline di Gerusalemme, oggi si ricorderanno i settant’anni dei rastrellamenti nel Ghetto romano. Anche stavolta, Aharon Appelfeld non ci sarà: «Non vado mai a queste cerimonie». Resterà nella sua casa di Mevaseret Zion, il sobborgo dei falascià di Gerusalemme famoso per un castello lasciato dai Crociati, per il primo Mc Donald’s kosher del mondo e soprattutto perché, a 81 anni, ci sopravvive lui: lo scrittore della Shoah. Che era un bambino quando fu sterminata la sua famiglia. E tutto solo riuscì a scappare da un lager in Romania. E venne adottato «da quel sottosuolo fatto di contrabbandieri e assassini in cui capii che ci sono criminali molto meno criminali dei criminali di guerra». E diventò cuoco dell’Armata Rossa. E arrivò sulle spiagge tra il Lazio e la Campania stando nascosto, rubando la frutta e l’acqua per campare, tenendosi stretto la vita che uno come Priebke gli avrebbe voluto rubare: «Sentivo parlare molto di lui...». Era un ragazzo che voleva solo dormire, Aharon, ma lo sguardo doveva stare spalancato: «Allora pensavo a nascondermi nei boschi. Per non essere preso. Le mie grandi esperienze di vita, le ho fatte tutte tra il 1939 e il 1945. Dai sette ai tredici anni. A quell’età, certi nomi ti s’incidono per sempre nella memoria...».
Le opere di Appelfeld sono maturate in Israele ma la testa, com’è per tutti i sopravvissuti, è rimasta in quei boschi. Ha letto sui giornali ebraici quel che succede a Roma: «Non si possono applicare i parametri della convivenza umana, quando si parla di quelli come Priebke. Non si può pensare ai fiori, a qualcosa da dire in memoriam. Lui era un assassino orribile, un essere umano di seconda classe: non può certo avere dei funerali di prima classe. Altrimenti è il nero che diventa bianco. La bugia che si fa verità. Le vittime che devono spiegarsi, mentre l’assassino diventa la vittima». Detto questo, riposi senza pace: «C’è una responsabilità storica della Germania, è vero. E capisco la tentazione di dire: lo tengano loro. Ma in fondo gli è stato concesso di vivere a Roma, di morire a Roma. Sapeva che cosa sarebbe accaduto. Queste sono persone che hanno vissuto seminando odio, morire raccogliendo odio è quasi una soddisfazione postuma. Vanno sepolte e basta, come si fa con tutti i grandi criminali. Senza onoranze. Senza parole. I loro delitti sono storia, la loro morte è solo cronaca».
Il perdono lo lascia ai cristiani, se ne sono capaci: «No, no, no, no, no — scandisce cinque volte Appelfeld, che le parole le pesa una per una —. C’è un confine, una montagna altissima che non si può scalare nel cammino di chi ricorda. Il limite è il perdono. Non può essere donato a un assassino di massa. La peggiore umiliazione per lui è che gli altri ricordino, non cerchino vendette e insieme, però, non perdonino. In uno dei miei occhi non c’è il perdono, nell’altro adesso c’è l’accettazione della sua morte: lo brucino o lo mettano da qualche parte sottoterra. In un buco piccolo. Coprano tutto. E lo lascino lì». Dice lo scrittore che essere uomini, da vecchi, non è un dovere facile da adempiere. Ma per un vecchio nazista è impossibile: «Non è un essere umano come gli altri. Questi criminali si sono spinti così avanti da non ritrovare più un significato al loro essere uomini. Oggi si chiudono nella difesa ripetitiva dell’ordine eseguito, del non aver potuto far altro, anche se loro hanno voluto fare quello. Non sono uno storico, non ho studiato le responsabilità di tutti i criminali di guerra e non so quanti nazisti vivi ci siano ancora, in giro per il mondo: hanno novanta, cento anni, però non è che siamo andati a cercarli proprio tutti... È rimasto un buco nella memoria pubblica. Si parla tanto di Shoah, ma spesso non s’è fatto molto per onorarla. Molti criminali sono riusciti a sfuggire al processo. C’è gente come Priebke che ha potuto superare i cento anni praticamente indisturbata. Hanno già avuto la loro buona sorte, perché le loro vittime a quell’età non sono potute arrivare».
Il male banale, che Hannah Arendt vedeva nella gabbia di Eichmann, oggi sembra trasformarsi nel male più idiota: «Ho visto in tv che al funerale si sono presentati anche i neonazisti. Gente che s’identifica nell’assassino, nell’errore assoluto senza sapere nulla, aver visto mai nulla. A questi ragazzi non hanno spiegato a scuola che cos’è stata la Seconda guerra mondiale? Forse sono duri a capire. Forse hanno avuto gli insegnanti sbagliati. Forse c’è una mentalità molto difficile da cambiare». Questo male non ha paragoni, dice Appelfeld, ma epigoni sì. E pericolosi eredi: «Le parole del figlio di Priebke sono la cosa peggiore. Il suo messaggio è: date pure mio padre agli israeliani, loro sono cannibali, se lo mangeranno anche da morto. Le idee non se ne vanno con Priebke...». Il sospiro è profondo quanto il disgusto: «Questa gente non mi piace quando muore e nemmeno quando rinasce».
Francesco Battistini