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 2013  ottobre 15 Martedì calendario

L’UOMO CHE DISEGNA PAESAGGI


Nelle vie incrociate della bellezza e del ricordo proverei a mettere i paesaggi di Tullio Pericoli, ora raccolti in un libro di suprema eleganza (I paesaggi, Adelphi: il volume esce domani). Sono nello studio di Rosara, a pochi chilometri da Ascoli Piceno, e da Colli del Tronto dove l’artista è nato. Qui, tra le colline – ammirate e ritratte negli anni - si svolge la nostra conversazione, che sembra un’estensione dei suoi paesaggi tanto è immaginosa e precisa a un tempo. Lo stile di Pericoli a volte mi fa pensare al cane che cammina accanto o precede il suo padrone. È istinto e fedeltà. Ma è anche lo stile di un gatto: agile, sornione, enigmatico. Sempre a caccia di nuove strade. «La fedeltà è alle proprie idee, il bisogno di cambiare invece nasce da ciò che ti sorprende del mondo. È difficile trovare un punto di incontro tra la continuità e la rottura, tra ciò che presumiamo di dover essere ancora e ciò che non vorremmo più essere », dice. E mentre lo dice il primo ricordo va a Matera. Città di sassi primordiali, trafitta dai raggi cocenti: «È trascorso quasi mezzo secolo. Ero lì per assistere ad alcune riprese del Vangelo di Pasolini, e mi colpì violentemente quel sole a picco, su una città che pareva in fiamme e squarciava la terra, restituendomi uno spaccato geologico, una profondità primitiva e tellurica». Mentre parla, scorrono le pagine con i primi paesaggi, dove le linee – come gomitoli o labirinti – si addensano verso il basso. «Poi», racconta, «quelle forme stilizzate mi vennero a noia. Pensai, improvvisamente, che quei paesaggi, nella loro brulla e tormentata contorsione, non rispecchiassero pienamente il mio sentire, non tenessero conto di quanto l’uomo aveva realizzato attraverso il sapere, la scrittura, la fantasia».
Dove ha origine il cambiamento e quali effetti produce in un artista che ha fatto della conoscenza colta e sofisticata uno dei punti di forza? Pericoli ricorda che il professore di filosofia una mattina destò l’attenzione della classe: «Nel silenzio di quegli attimi, con un gesto secco, lanciò un gesso. Non capimmo bene cosa stesse accadendo, fino a quando non ci disse: vedete? Il mio atto, per quanto trascurabile, ha impercettibilmente modificato l’equilibrio dell’ambiente. L’astrazione ci parve difficile. Solo in seguito mi si rivelò il senso: tutto quello che diciamo, pensiamo, scriviamo e disegniamo trasforma noi e ciò che ci sta intorno».
La trasformazione, quando è sorprendente, ha qualcosa di metamorfico che la letteratura, al pari del mito, può raccontare. E dalla letteratura Pericoli ricava stimoli, osservazioni desideri. È una fonte inesauribile di guadagno spirituale. Un testo, una frase, un verso – Zanzotto, Borges, Rilke o Tabucchi - diventano lo spunto per una traduzione visiva: «All’inizio fu grazie alla serie dedicata all’isola di Robinson che la letteratura entrò prepotentemente nel mio immaginario. A quel tempo - era la metà degli anni Ottanta - la mia vita sembrava divisa tra l’artista e il mestiere prestato ai giornali. Ma proprio Robinson segnò una svolta fondamentale. Divorziai dal mio gallerista e decisi che avrei fatto il pittore attraverso i giornali. Ci furono due conseguenze per me positive. La prima, che il mondo improvvisamente si era fatto più vicino e quindi più leggibile. La seconda, che nello specifico entravo in contatto con un pubblico reale».
Il mercato dell’arte - con le sue tendenze imperiose, le quotazioni spesso inspiegabili e le valutazioni sconcertanti - è stato una spina per Pericoli. Un dolore acuto, pari al successo che negli anni gli ha arriso. Come se quel “sistema”, alzando un muro ideologico, rivendicasse per sé il diritto a definire cosa fosse o non fosse contemporaneo: «Se c’è un sentimento che ha sempre guidato il mio lavoro è il piacere di abbandonarmi alle emozioni e ai desideri. Certo, sono stato influenzato da artisti del passato, mi sono divertito a citarli, anche segretamente e ho, a volte, “rubato” le loro forme. Ma pur non essendomi mai occupato direttamente del mio tempo, vorrei essere riconosciuto come un autore del mio tempo».
Che cosa spinge un artista a chiedere ciò che gli dovrebbe spettare per naturale acquisizione, testimoniata oltretutto dalla sua storia? Credo sia il desiderio del riconoscimento: «Invece, ciò che in molti anni il mercato dell’arte, inseguendo le mode, i capricci, le assurdità, ha realizzato, lo ha fatto spesso spalleggiato da una critica faziosa e cinica, miope e interessata». La chirurgia del dolore è una tecnica che mette a nudo la più intima delle desolazioni: l’esclusione.
Nelle parole di Pericoli si colgono i residui di un’antica insicurezza. Intuisce che non tutto è ordine, né luce. Ma non ama il caos e il buio. Egli è un pittore della civilizzazione. E della lingua. E se quest’ultima ha perso le sue virtù comunicative, se la parola si usura nell’appiattimento quotidiano – contagiata dalla peste dell’ovvietà, direbbe Calvino - cosa fare se non scavare nelle miniere della letteratura, per estrarre parole capaci di ricucire il legame sensibile tra noi e il mondo?
La sua storia paesaggistica ha prediletto quella verticalità – così evidente ad esempio nel suo bellissimo lavoro sulle “torri” - che il tempo ha poi smussato. Le colline – che occuperanno i paesaggi dalla seconda metà degli anni Novanta in poi - quasi in un gioco ottico, sembrano stratificate da un insieme di superfici piatte e si trasformano in sorprendenti cartografie della terra. Perfino la serie dei boschi, evocativa di atmosfere romantiche, spunta dagli “altopiani” di giganteschi tavoli.
Non c’è mondo senza superfici, sembra dirci Pericoli. E, d’altro canto, non ci sono superfici che non tendano a sprofondare o a esplodere. In fondo - come mostrano le serie dei “vulcani” e le città verticali – è la storia della terra, e la sua civilizzazione il vero oggetto della sua pittura.
La vita di un artista può sorprenderci per il modo in cui a volte ripensa il suo intero svolgimento: «Partendo da sottoterra mi sono ritrovato come la talpa che emerge, guarda il mondo, e torna nel luogo di origine. Nei miei lavori più recenti ripercorro temi che avevo perduto o abbandonato: la ricerca geologica, con le sue stratificazioni, per esempio».
Mi colpisce il richiamo alla profondità, alle viscere e all’uso che l’ultimo Pericoli ha fatto dell’intermittenza della luce, «quasi che essa provenga dalle fibre del quadro e ne riveli le nervature», spiega. In certi istanti, come preso da un sommesso furore, egli provoca la carta, la tagliuzza, la ferisce affinché il colore ne sia assorbito in modi diversi. O semplicemente appoggiato, come ama precisare. C’è qualcosa di provvisorio nell’idea stessa dell’appoggiare. Ma anche di delicato e di silenzioso. Quel colore non si mescola, non forza, non invade. Eppure, è lì risvegliato e deposto dall’eco di una cavità profonda.
Artista è chi sopperisce all’insufficienza dell’umano, mi dice. È una figura singolare che estende la sua immaginazione a quel mondo – piccolo o grande che sia - che ha catturato lo sguardo. È uno scambio ineguale e rischioso. Ma anche l’occasione di un fantasticare meraviglioso. Lì - nel mezzo di una contesa, nel disordine che lascia liberi, direbbe il suo amato Lévi-Strauss - si generano le forme. Nasce qualcosa: un volto, un albero, una nuvola. Insomma, un paesaggio e la sua storia. Nella pittura di Pericoli c’è l’ozio dei secoli, il perdersi lento dietro ai sogni, il tratto antitragico di un artista che strappa all’oscurità i colori del giorno.