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 2013  ottobre 15 Martedì calendario

GANG – MILANO Vai a spiegarglielo a José che anche la Santa Muerte più di tanto non può fare. Che votarti all’“Angelo di Luce” quando sei già arruolato nel regno dei morti che ciondolano con al collo un rosario di perline o un medaglione a forma di dollaro, può essere inutile

GANG – MILANO Vai a spiegarglielo a José che anche la Santa Muerte più di tanto non può fare. Che votarti all’“Angelo di Luce” quando sei già arruolato nel regno dei morti che ciondolano con al collo un rosario di perline o un medaglione a forma di dollaro, può essere inutile. «Sapevo che sarebbe toccato a me, sicuro. A colpi di machete, o con la mannaia che usi quando ti dicono che devi far saltare qualche collo. Che poi non sempre ti va bene: a volte parti in quattro o cinque e pensi “li ammazzo tutti quegli animali”. E invece ne basta uno, uno che “taglia” meglio di te e ti prende bene, e rimani a terra. Nei parcheggi, dove ti trovano il giorno dopo. In macchina, dove magari ti eri appena divertito con una reina (un’affiliata, utilizzata per fare una trappola alla vittima). Era due anni fa e avevo capito che sarebbe toccato a me: perché se esci dalla pandilla metti la firma sulla lapide». Il fischio del tram in via Mecenate — pezzi di asfalto “latino” a Milano Est, tra l’Ortomercato già infiltrato dalla ndrangheta e l’aeroporto di Linate — è il segnale che annuncia l’arrivo di José. Ecuadoriano, 28 anni e nient’altro. «La polizia ti arresta, la Mara ti ammazza». Felpa blu scura no logo, capelli rasati, niente lacrime tatuate sotto gli occhi (nella simbologia della Ms13 è la macabra conta degli omicidi commessi: ogni goccia una croce). Dei dodici tatuaggi che istoriano la sua pelle di (ex) soldato metropolitano ne mostra solo uno, forse è il meno compromettente: un doppio tris di carte e dadi steso con inchiostro nero, tra orecchio destro e spalla. «Vuole dire che hai consegnato la tua vita alla sorte. Che giochi con la vita, ma soprattutto con la morte» (da qui il culto sudamericano della Santa Muerte, presenza spirituale benevola, un angelo di luce a cui secondo la leggenda sono devoti criminali e delinquenti). José nel gioco delle pandillas ci è rimasto fino a 26 mesi fa. Era un homboy. Si chiamano così, tra di loro, i membri della Ms13, l’acronimo che sta per Mara Salvatrucha (100mila affiliati in tutto il mondo da quando — sono i primi anni Ottanta — gli immigrati salvadoregni in fuga dalla guerra civile e riparati nella California ispanica fanno clan per difendersi dalle gang di afroamericani e messicani). Forse José ha rapinato, di sicuro ha pestato e fatto pestare: a colpi di coltello, di mannaia (l’hacha), di machete. Le armi preferite dalle gang dei latinos radicate in Italia. Quattromila giovani affiliati a una quindicina di bande o pandillas che si fanno la guerra tra loro per il controllo del territorio o semplicemente perché è scritto così. Un esercito di ecuadoriani, salvadoregni, peruviani, africani al soldo di nessuno: anzi, di sé stessi. «C’è il capo, certo. Il Re (o ranflero). Ci sono i luogotenenti. Ma se scippi o rapini o spacci non sei obbligato a passargli il bottino. Devi rispettarli, sottostare ai loro ordini se ti dicono di punire qualcuno. Ma quello che fai e guadagni, è tuo». Se José non fosse uscito dal gruppo, se anziché girare le spalle all’inferno fosse ancora lì a “tagliare” con l’hacha e a ruotare la visiera del cappellino ad ogni lamata inferta ai rivali, di sicuro non potrebbe raccontarla, la Mara. Il commissariato di polizia è a 300 metri. «Me ne sono andato via perché o morivo o morivo. Così almeno posso sperare di campare ancora qualche anno. La Mara è organizzata come la mafia. L’unica differenza è che la mafia fa i miliardi e noi invece siamo ladri di polli, e ci ammazziamo come cani per niente». Josè vive in periferia, in città ci torna poco e malvolentieri. «Ti spiego cosa vuol dire essere un mareros. L’inizio è uguale per tutti: ti unisci alla banda perché senza la banda non sei niente. Cerchi te stesso, è assurdo ma lì ti ritrovi. Hai un gruppo, un codice, delle regole. Anche violente ma le hai. Adesso si stanno unendo anche gli italiani. Sono loro che vengono con noi, non il contrario, come accadeva prima». Giovani italiani sotto i vent’anni che vogliono rientrare dai margini e lo fanno allargandoli, lacerandoli. Quasi una nemesi nella nemesi. «La forma- gang la troviamo alle origini della sociologia americana nel momento in cui si confronta con la sedimentazioni delle migrazioni, in particolare quella degli italiani — ragiona Luca Queirolo Palmas, docente di Sociologia delle migrazioni all’Università di Genova, dieci anni a studiare le pandillas —. È per questo paradossale che oggi, quando pensiamo alle gang, immaginiamo i primitivi urbani, qualcosa che viene da fuori, qualcuno arrivato a portare violenza nelle nostre ordinate città; e non vediamo che stiamo parlando di un fenomeno che ci parla anche della nostra storia di migranti, di un fenomeno che ci parla di un prodotto della nostra società, esattamente come i morti di Lampedusa ci parlano del proibizionismo europeo sulle migrazioni al di là di ogni facile retorica sulla malvagità degli scafisti». José prima di lasciare la Mara cos’era? Un “malvagio”? O uno specchio o una vittima della società? «Ero un soldato, e basta. Obbedivo. La banda mi dava qualcosa che io restituivo alla banda. Passando quasi sempre dalla violenza. Il pestaggio dell’iniziazione: esci massacrato ma ti senti un dio. Sei dentro, ce l’hai fatta. I calci e i pugni che hai preso (per 13 interminabili secondi) ti serviranno come il pane. Prima di rischiare la morte impari il rispetto». A non lasciare mai solo un homboy, a non rinnegare la tua gang, a non metterti mai insieme con la donna di un homboy e a non parlarne mai male. A non arrivare mai ubriaco alla mirin, la riunione della banda durante la quale è vietato parlare al telefono e uscire. A non sgridare mai un homboy né i suoi parenti. Solo il capo può farlo. Il ranflero. «Ero un soldato semplice, sarei diventato un luogotenente se non me ne fossi andato. Adesso guardo da lontano. Osservo. E mi guardo alle spalle. Dai miei companeros e dai nemici, gli Ms18». José racconta che c’è un peruviano. È un latin king. È un tipo tarchiato e taciturno, soffre di vertigini ed è soprannominato l’“Arrotino”. Un anno fa anche lui si è pentito o impaurito. Per uscire dalla pandilla senza passare sotto la lama del machete — è il trattamento riservato a infami e desaparecidos, lui lo conosce bene — ha pregato tre notti di fila affinché lo arrestassero. «Meglio dietro le sbarre che in una bara di ferro», ha sussurrato alla fidanzata diciassettenne, anche lei battezzata a calci e pugni in un parco dai padrini della gang. Poi si è «fatto trovare» dagli sbirri. Adesso l’Arrotino, la pelle sfregiata dalle cicatrici e dall’inchiostro, è rinchiuso in un carcere lombardo. Sta scrivendo un diario. Un capitolo è dedicato all’ultima che gli hanno fatto i suoi soci mazzieri quando hanno capito che voleva levarsi da queste batterie di uomini che paiono cani da combattimento. Legato mani e piedi e appeso a una corda. Tenuto sospeso in aria oltre il cornicione di un lastricato al sesto piano di un condominio. Lui che i capogiri lo fanno andare fuori di testa. Solletico, forse, rispetto al biglietto da visita con cui i primi “gruppi di furbi salvadoregni” — la traduzione più accreditata della Mara Salvatrucha — si presentarono a Milano a maggio del 2008: un occhio cavato a colpi di machete a un nemico della Ms18. «Ero appena arrivato dall’Ecuador e pensavo fosse un gioco», dice Josè. Era l’inizio della guerra.