Stefania Vitulli, il Giornale 15/10/2013, 15 ottobre 2013
«LA GENTE NON VUOLE I MIGRANTI. E IO LO SCRIVO»
[Elizabeth Strout]
Il Maine non è soltanto l’ambientazione prediletta da Stephen King o quella della Signora in giallo. È anche il luogo di elezione del caso letterario dell’anno, La verità sul caso Harry Quebert di Joel Dicker. E nel Maine è nata e vive Elizabeth Strout, Pulitzer per Olive Kitteridge , in Italia per un tour di promozione del nuovo romanzo, I ragazzi Burgess (Fazi). Se è vero che l’America oggi ha due culture letterarie, quella di New York, e quella del resto del Paese, la precisazione logistica non è peregrina: la Strout tratteggia il country style con un realismo magnetico che presuppone l’immersione totale e la altrettanto totale decontaminazione dall’hipsterismo di Manhattan. I Burgess sono tre fratelli drammaticamente diversi, forse i suoi vicini di casa: Jim, avvocato di successo, Bob, il minore e frustrato, e Susan, che «non è simpatica a nessuno», malata di solitudine, e cresce un figlio che al culmine dello squilibrio emotivo lancia una testa di maiale in una moschea durante il Ramadan.
In un momento in cui i migranti sono all’ordine del giorno, come le è venuto in mente di inventarsi un gesto così?
«Quello che mi interessava è proprio questo: perché una certa fetta della popolazione bianca americana ha molte difficoltà ad accettare la nuova ondata migratoria, costituita da africani, molti dei quali musulmani? Anche se sono favorevole a una politica aperta, volevo costruire un personaggio che fosse, più che negativo, confuso. Ed esprimesse la stessa confusione che molta gente prova difronte a quella che percepisce come una vera invasione da parte di una cultura diversa. Confusione comprensibile».
Jack è giovane. Non dovrebbe avere una mente aperta?
«Ma è un giovane del Maine, non di una città cosmopolita. È isolato e viene da un posto in cui è difficile aver voglia di entrare con contatto con un sistema di pensiero diverso dal tuo. Anche se non si può generalizzare, è innegabile che tanta gente non vuole gli immigrati. La paura dello straniero è atavica, alla faccia delle tecnologie e delle connessioni. Una cosa è leggere delle storie su internet e un’altra è condividere il proprio quartiere con loro».
Il suo romanzo è anche una storia di famiglia: è sempre un dolore, una palla al piede?
«Come scrittrice sono interessata al dramma, funziona meglio. Se parlassi di una famiglia felice, la lettura non sarebbe interessante. Però la storia è di conforto a chi vive in famiglie disfunzionali. Tante ferite non si rimarginano mai: dipende dalla singola persona saper andare avanti con la propria vita».
Come quando Jim attraversa la crisi di mezza età... Non è un concetto superato?
«No. Semplicemente queste crisi oggi vengono più tardi, perché viviamo più a lungo. Ma a un certo punto della vita il momento in cui devi rimettere tutto in discussione arriva. Maschi e femmine, senza differenze: a nessuno è risparmiata la crisi, prima o poi».
I tre fratelli Burgess appartengono anche a classi sociali diverse. Ha ancora senso parlare di classi oggi?
«“Razza”e “classe”sono gli ultimi due grandi tabù americani. Invece se ne dovrebbe parlare. Jim, alta borghesia. Bob, ceto medio. Susan, proletariato: la classe cui appartengono influenza profondamente i Burgess. Bob e Jim trovano Susan provinciale e questo alimenta irritazione perché ricorda loro il mondo da cui provengono. Susan a sua volta è risentita perché i due fratelli se la passano meglio di lei».
La letteratura aiuta a disinnescare questi meccanismi?
«Da questo punto di vista, la letteratura è una vera e propria religione ».