Mattia Feltri, La Stampa 15/10/2013, 15 ottobre 2013
COSÌ IL VOTO SEGRETO NEL 1947 SERVÌ A SALVARE IL DIVORZIO
Quest’oggi a mezzogiorno la mobilitazione antiberlusconiana prevede – per curiosa nemesi – lo spogliarello. A denudarsi saranno gli attivisti di Avaaz che, si legge sul sito, significa «voce in tante lingue europee, mediorientali e asiatiche» ed «è stata lanciata nel 2007 con una semplice missione democratica: organizzare i cittadini di tutte le nazioni per avvicinare il mondo che abbiamo al mondo che la maggior parte delle persone ovunque vorrebbero». La missione democratica prevede lo striptease davanti a Palazzo Madama così giustificato: «La protesta nuda vuole opporsi alla possibilità che il Senato possa utilizzare il voto segreto per decidere sulla decadenza di Silvio Berlusconi». E cioè: «Noi non abbiamo niente da nascondere, e voi senatori?». L’idea di abolire il voto segreto in occasione di quello sulla decadenza del capo di Forza Italia è stata lanciata qualche settimana fa dai parlamentari a cinque stelle, in nome della trasparenza (tutti debbono sapere chi vota e come) e con la consueta noncuranza delle prassi democratiche e delle ragioni a cui sono ispirate.
La segretezza del voto parlamentare non è questione di ieri o dell’altroieri: era prevista già nello Statuto Albertino – la costituzione dell’Italia unita – in alcune circostanze fra cui quella «che concerne al personale». Fu abolita per capriccio soltanto da Benito Mussolini e nemmeno all’alba del regime, ma nel 1939, poiché era meglio che i primi dissensi non avessero certificazione nei lavori delle camere, e sebbene non la si utilizzasse da lustri. Per comprendere il valore dell’istituto vale la pena di ricordare un celebre episodio che risale ai mesi dell’Assemblea costituente, nell’aprile del 1947. Si stava discutendo di un articolo fondamentale della Carta - era il 23, poi è diventato il 29 - che dice così: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». Originariamente il testo attribuiva al vincolo del matrimonio l’aggettivo «indissolubile». Intravedendo la possibilità che da lì a qualche tempo si introducesse il divorzio, venti costituenti laici e di sinistra (ma non comunisti) chiesero la votazione segreta. Il presidente Umberto Terracini (comunista) non si oppose ma fece notare che la richiesta era eccentrica, ormai dimenticata nelle procedure assembleari, e che «sia da tener presente che si tratta di una votazione alla quale si ricorre veramente soltanto in casi di straordinaria importanza, e ciò dico senza voler contestare l’importanza del voto che stiamo per dare». In ogni caso, il presidente aprì la discussione.
Parlò per primo Giovanni Gronchi, democristiano, futuro presidente della Repubblica. Dopo un’introduzione tecnica, Gronchi insinuò che la richiesta sottintendesse «due moventi: o lo sperare di guadagnare pavidi proseliti alla propria causa o il calcolo di convenienza, che equivale al non avere il coraggio politico di assumere una posizione»; che ognuno, dunque, «si assumesse la propria responsabilità». La replica fu del socialista Rocco Gullo (uno dei venti firmatari), che ribaltò abilmente il ragionamento: «Il nostro coraggio politico è fuor di discussione; tutto al più non possiamo sperare che vi sia della gente la quale voti secondo un giusto concetto» e che non con voto palese non lo avrebbe fatto «appunto per mancanza di coraggio politico». La questione venne sbrigativamente chiusa da Palmiro Togliatti: «Noi siamo 104 comunisti, siamo una minoranza. Guai se ammettessimo che si violi il regolamento della Camera. Il regolamento della Camera è il presidio della nostra libertà. Per questo, se è stata chiesta la votazione segreta, la votazione segreta si deve fare». Si votò e l’aggettivo «indissolubile» venne espunto. Senza quella votazione segreta, il referendum sul divorzio – promosso e vinto ventisette anni più tardi dai radicali di Marco Pannella – sarebbe stato dichiarato incostituzionale.