Paolo Valentino, Corriere della Sera 15/10/2013, 15 ottobre 2013
TEA PARTY, LA DESTRA ANTITASSE DECISA AD AFFAMARE LO STATO
Il racconto delle origini ha già le imprecisioni e le vaghezze della leggenda. Solo il riferimento evocativo del nome ha la limpidezza di una dichiarazione programmatica. Il Tea Party cui si ricollega l’omonimo movimento anti-tasse, anti-Stato, anti-spesa che tiene in ostaggio il governo americano e indirettamente minaccia l’economia globale, è quello che si consumò nel porto di Boston il 16 dicembre 1773, quando i Sons of Liberty, un gruppo di patrioti del Massachusetts, assalirono tre navi inglesi e gettarono in acqua 347 casse di tè, per protesta contro la tassazione imposta alle colonie dal Parlamento londinese, dove gli abitanti del Nuovo Mondo non erano rappresentati: «No taxation without representation», fu lo slogan coniato da John Hancock.
Nella sua incarnazione odierna, il Tea Party Movement prende più modestamente le mosse dal parterre del Mercantil Exchange, la borsa delle merci di Chicago, dove il 19 febbraio 2009, un esagitato Rick Santelli, primo reporter finanziario della Cnbc , lanciò un grido di battaglia contro il piano della Casa Bianca per un ennesimo salvataggio, questa volta in favore dei proprietari di case, che non potendo più onorare i mutui rischiavano il pignoramento. «Questa è l’America! Quanti di voi vogliono pagare per il vicino che si è fatto un altro bagno e non può saldare i debiti?». E fra gli applausi dei traders, che avevano appeso centinaia di bustine da tè ai loro computer, Santelli trasse il dado: «Sto pensando di organizzare un Tea Party in luglio, così getteremo nel Lago Michigan un po’ di titoli derivati».
O forse tutto era cominciato qualche mese prima sul sito Internet Market Ticker, dove Keli Carender, la giovane insegnante di Seattle che lo ha creato, aveva lanciato la protesta contro la manovra da 800 milioni di dollari, con cui la Casa Bianca aveva posto un argine alla più grave crisi finanziaria dalla Grande Depressione. Fu lei, poi diventata celebre blogger col nome di Liberty Belle, a organizzare i primi Tax Day Tea Party.
Ma fu il video con le urla di Santelli, un cult della rete, a far da megafono: il 27 febbraio 2009 la prima protesta nazionale coordinata dal Tea Party vide svolgersi manifestazioni in oltre 40 città d’America. Bastarono meno di due mesi e un uso sapiente dei social media perché il movimento facesse un altro salto di qualità: a metà aprile, mezzo milione di americani partecipò al Tax Day nei 50 Stati dell’Unione.
A fornire il collante e il combustibile più potente fu la riforma sanitaria, varata dall’Amministrazione Obama e diventata simbolo di uno Stato invasivo, nemico del mercato e socialista. Fenomeno dalle molteplici anime — conservatore, libertario, populista — il nuovo Tea Party non ha struttura formale né gerarchia. Composto da una galassia di gruppi nazionali e locali autonomi, privo di una leadership centralizzata, si vuole esempio da manuale di grassroot, di attività politica dal basso. Ma secondo il Premio Nobel Paul Krugman, siamo di fronte a un fenomeno di Astro Turf, apparentemente spontaneo e in realtà manipolato da ben precisi gruppi conservatori.
Di certo nel successo, ora in fase di rallentamento, del Tea Party, un ruolo cruciale ha giocato FreedomWorks, il network conservatore creato da Dick Armey, ex leader della maggioranza repubblicana alla Camera negli Anni Novanta. FreedomWorks si ispira alla scuola austriaca, secondo cui tutti i modelli economici sono inutili, poiché per funzionare il mercato dev’essere totalmente libero. Fra le letture obbligate dei suoi militanti, «A Force More Powerful», il classico di Peter Ackerman e Jack Duvall sui movimenti sociali del XX secolo e «The Law» di Frédéric Bastiat, dove il filosofo francese accusa i governi di rubare ai cittadini, quando li tassano per investire nel welfare e nell’istruzione.
E forse ancora più importante nella galassia del Tea Party è il ruolo di «Americans for Prosperity», organizzazione fondata dai fratelli David e Charles Koch, i miliardari ultraconservatori che finanziano con montagne di dollari i gruppi del movimento. Nel 2013 uno studio della rivista Tobacco Control ha stabilito un collegamento tra il Tea Party, la lobby del tabacco e i fratelli Koch, votati a usare la loro ricchezza per promuovere con un movimento di massa la loro linea anti-statalista e favorevole alle grandi corporation. Altre sigle sono quelle dei Tea Party Patriots, Tea Party Express e Tea Party Nation.
A parte i Koch, Dick Armey e a suo modo Rick Santelli, un personaggio centrale nel Tea Party è ancora Glenn Beck, celebre volto televisivo di Fox News , due milioni di spettatori a notte, ex alcolista, abile imbonitore sempre sul filo della calunnia e della bugia. In calo invece la stella di Sarah Palin, candidata alla vice-presidenza nel 2008, che alla Tea Party Convention di Nashville nel 2010 tenne il discorso principale, anche se poi si scoprì che si era fatta pagare 100 mila dollari.
In politica, il momento di maggior gloria del Tea Party sono state le elezioni di Midterm del 2010, quando il movimento impose i suoi candidati all’establishment repubblicano, vincendo in 5 collegi senatoriali su 10 e in 40 circoscrizioni per la Camera su 130. Fu l’ora di Rand Paul, Marco Rubio, Jim de Mint, Michele Bachmann e Scott Brown.
Ma un anno fa il bilancio elettorale è stato negativo e il vento della rielezione di Obama ha contribuito al ridimensionamento del fenomeno. Non abbastanza però da ridurne influenza e massimalismo estremista. Anzi, a ranghi ridotti e in calo di popolarità, i descamisados del Tea Party in Congresso sembrano dare il meglio di se stessi. Decisi «to starve the beast», ad affamare la bestia dello Stato. Convinti in una lucida follia che «fallire salverà l’America». E al diavolo se il fallimento trascinerà nel gorgo l’intera economia mondiale.