Massimo Gaggi, Corriere della Sera 15/10/2013, 15 ottobre 2013
AMERICA, LA DEMOCRAZIA INCEPPATA QUANDO LO SCONTRO ISTITUZIONALE MINACCIA LA TENUTA DELL’ECONOMIA
Una riforma elettorale nella quale la ridefinizione dei confini dei collegi sia affidata a commissioni indipendenti. Può sembrare strano che, col Congresso paralizzato da un braccio di ferro senza precedenti e gli Stati Uniti a un passo dal default per la prima volta nella loro storia, l’Economist concluda l’ultimo editoriale dedicato alle convulsioni del sistema politico americano con una simile proposta.
Certo, adesso serve altro: un sussulto di buon senso, un compromesso che consenta di salvare la faccia anche di chi si è infilato con baldanza in un vicolo cieco. L’urgenza assoluta, oggi, è quella di alzare il tetto del debito pubblico per evitare l’insolvenza del Tesoro e di approvare i documenti di bilancio che consentano al governo di riaprire i battenti. Ieri sera l’intesa tra democratici e repubblicani al Senato, almeno per allungare i tempi, appariva vicina.
Ma la drammaticità della crisi di questi giorni e il ripetersi di situazioni di emergenza istituzionale a scadenze sempre più ravvicinate indicano che il malessere è ormai profondo e ha cause molteplici, non facili da rimuovere. Anche perché la fine dell’era della prosperità ha prodotto un disagio sociale che ha ridato fiato a vecchie e mai sopite tendenze isolazioniste di una parte dell’America, mentre la battaglia politica tra destra e sinistra si è andata sempre più radicalizzando.
Osservando oggi questo Paese arrabbiato, spaccato, incapace di risolvere quella che è niente più che una disputa procedurale e che per questo rischia di perdere, in prospettiva, gli enormi vantaggi di cui gode in quanto emittente della valuta di riferimento del mondo, il dollaro, si fatica a riconoscere la superpotenza mondiale che, dal Dopoguerra ad oggi, è stata la principale fonte di stabilità della comunità internazionale.
Un sistema ammirato anche per la solidità del suo impianto istituzionale: poteri presidenziali molto estesi ma con un ruolo del Congresso tutt’altro che secondario e un efficacissimo sistema di pesi e contrappesi. Possibile che tutto questo sia svanito per la carica a testa bassa di una minoranza radicale, la destra integralista dei Tea Party? Evidentemente no, quello è stato solo un detonatore.
Descrivere la sclerosi di un sistema politico è impresa complessa e poco seducente. Semplificando al massimo: i fattori che hanno trasformato l’era obamiana della speranza e del rinnovamento nell’incubo di una presidenza che non riesce a varare nemmeno un intervento rilevante (salvo Obamacare, ora sotto assedio) e deve, invece, tamponare un’emergenza dopo l’altra, sono la fine di mezzo secolo di grande prosperità e la profonda diffidenza dei conservatori nei confronti del presidente democratico, oltre che gli errori politici commessi da quest’ultimo.
Obama ci ha messo del suo, certo: troppe promesse «messianiche» nella campagna elettorale del 2008 e un passaggio troppo brusco dalla filosofia del governo bipartisan al muro contro muro e ai discorsi presidenziali trasformati in comizi, dopo i primi schiaffi presi dai repubblicani.
Ma tutto è cominciato, già nell’estate successiva alla sua elezione, con le madri del ceto medio conservatore americano impoverito e disorientato che si presentavano davanti alle telecamere in lacrime: «Dov’è finita l’America che conoscevamo? Rivoglio indietro il mio Paese».
Dopo la crisi del 2008 quel benessere è svanito, probabilmente non tornerà più e non è colpa di Obama. Ma, anche se non lo ammette apertamente, per buona parte del mondo conservatore il primo presidente nero della storia americana è una sorta di Anticristo. E una figura simile va combattuta con ogni mezzo.
Fenomeni politici sociali allarmanti, gravi, certo. Che, però, non avrebbero avuto gli effetti devastanti che vediamo quotidianamente, se il sistema istituzionale avesse avuto una maggiore tenuta. Ma la solidità dell’impianto è stata minata da tre fattori: 1) la capacità degli Stati di alterare dalla periferia i meccanismi di elezione delle loro rappresentanze; come abbiamo già scritto più volte, ridisegnare i collegi in modo da renderli socialmente e politicamente più omogenei ha spostato la competizione dalla scelta tra un candidato democratico e uno repubblicano il giorno delle elezioni alle primarie dove il parlamentare in carica, spesso un moderato, deve difendersi (nel caso della destra) dagli assalti ben finanziati e ideologicamente orchestrati con grande abilità dai candidati dei Tea Party. 2) La radicalizzazione dei rapporti ha alterato i meccanismi interni di funzionamento del Congresso e soprattutto del Senato dove, a causa del ricorso sistematico al «filibustering» (ostruzionismo) da parte repubblicana, i democratici non riescono quasi mai a legiferare pure avendo una maggioranza di 54 voti su 100. 3) Costituzione da riformare. La Carta sulla quale è costruito il sistema americano è giustamente sacra. Ma è anche considerata quasi immutabile. Non un problema da poco, visto che il documento, varato nel 1787, è costruito attorno a una realtà molto diversa da quella attuale. In 225 anni è stato modificato solo 27 volte. Appena dieci nell’ultimo secolo: il voto alle donne e ai diciottenni e poco altro. L’ultima correzione, 21 anni fa, sugli stipendi di deputati e senatori.
Eppure ci sarebbe molto da fare. A partire dall’assurdità di un sistema nel quale la California ha due senatori e 51 deputati mentre l’Alaska, che a causa della sua popolazione minuscola ha un solo deputato, ha diritto, come tutti gli altri Stati, ad avere anch’essa due senatori.