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 2013  ottobre 14 Lunedì calendario

PAMICH, LA VITA È UNA MARCIA DI 100MILA KM


Gli anglosassoni hanno una bella etichetta per quelli come Abdon Pamich: vecchi fusti. Nel senso di fusto del-l’albero che tempo e inclemenze non riescono a piegare. É una questione di buone fibre: i fiumani, gli zaratini, quelli delle isole e della terraferma, ce l’hanno e ne sono orgogliosi. Sufficiente pensare a Ottavio Missoni, rapito dal dolore più grande che un padre debba affrontare, più che dallo scorrere della sabbia nella clessidra.
Il 3 ottobre Pamich ha compiuto 80 anni, e quindici giorni dopo i 49 dalla sua vittoria in una Tokyo lucida di pioggia, passata in archivio con il bianco e nero che a quel tempo era la normalità e che di quella giornata è lo scabro e perfetto cromatismo. Continua a marciare (e a pedalare) non perché lo sport per la terza e quarta età sia diventato un fenomeno di moda ma perché muoversi è dentro di lui. Si mosse - con mezzi di fortuna, anche usando i piedi - quando l’Istria passò alla Jugoslavia (“De Gasperi scelse l’Alto Adige dove sono tedeschi, non l’Istria italiana”, dice lui) , ha continuato a muoversi quando a Genova, grazie all’occhio acuto e umano di Giuseppe Malaspina, trovò la vocazione della marcia. Non ha smesso e qualcuno ha provato a immaginare quanti chilometri abbia nelle suole, giungendo alla cifra tonda, iperbolica e piuttosto reale di 100.000.
Abdon, alto e diritto, è sempre stato un tipo austero: se gli incroci della vita lo avessero portato a imbattersi in Ingmar Bergman, gli sarebbe stata garantita una parte di pastore di anime, di capofamiglia con il culto del lavoro in una fattoria del Nord silenzioso. Dentro, sempre una grande forza e la capacità di attendere, di non arrendersi. Molti lo riducono a quella gara di quasi mezzo secolo fa, a quei 50 km che assegnavano la medaglia olimpica, al suo duello con il ferroviere britannico Paul Nihill, alla sua leggendaria “fermata” per liberare gli intestini, mentre intorno a lui poliziotti giapponesi in guanti bianchi facevano quadrato come i granatieri schermavano l’Imperatore che andava di corpo, al suo gesto sul filo di lana (c’era ancora prima di esser sostituito da cellule) che in un attimo lo fece transitare dalla rabbia all’estaticità della trasfigurazione. Aveva atteso e il suo giorno era arrivato.
“Sono in tanti a riassumermi in quel giorno, in quei gesti, nelle vicende di quella rotta che prevedeva due segmenti di 25 chilometri in piena città. Pensi che, dopo quasi mezzo secolo, neppure in Giappone mi hanno dimenticato: quando il mese scorso Tokyo ha vinto la corsa ai Giochi del 2020, il corrispondente di uno dei loro quotidiani mi ha telefonato per chiedermi cosa pensassi dello spirito sportivo dei giapponesi. Mi è venuto da sorridere: a dire il vero, quel giorno avevo altro a cui pensare. E poi non è stata quella la giornata della mia gioia più perfetta. Quel momento va cercato più indietro, al ’56, quando andai alla Praga-Podebrady che a quel tempo era una specie di campionato del mondo della 50 km. Quando partii, mi dissi: se trovi un posto tra i primi quindici, puoi esser soddisfatto. Vinsi”. Oggi da Praga a Podebrady non si va più. Cambiate tante cose, anche la marcia. Quella di Abdon, di Pino Dordoni, dei loro magnifici avversari e amici, era l’espressione del “passo sportivo”: ora si va velocissimi, a passetti febbrili, e certe donnine viaggiano più rapide di chi per Abdon è termine di paragone eterno, di stima profonda: il tedesco Peter Frenkel, il britannico Kenneth Thompson, il sovietico d’Ucraina Vladimir Golubnichy.
Dopo quel successo boemo che, 23enne, lo spedì sul palcoscenico, qualche mese dopo Pamich finì quarto all’Olimpiade di Melbourne. In un pomeriggio torrido di Roma ’60 strappò la medaglia di bronzo dietro a Thompson e al veterano svedese John Ljunggren. Era qualcosa, non era quello che voleva. E così aspettò ancora e il giorno dei giorni venne a Tokyo come se la costanza, secondo vuoti adagi, dovesse essere premiata. In realtà, contarono solo la volontà, la capacità di reagire a quelli che Amleto chiamava gli strali della sorte, e nel suo caso erano quei dolori al basso ventre. Marciava da dieci anni, avrebbe aggiunto un altro titolo europeo a quello del ’62, avrebbe continuato per altre dieci stagioni, avrebbe preso parte, senza fortuna, ad altre due Olimpiadi. E così questi sono i giorni anche di un altro anniversario: da quarant’anni ha chiuso con le gare e ha continuato a gareggiare con se stesso: “Tre, quatto uscite alla settimana. Marciando o pedalando le razioni
vanno dai 10 ai 60 chilometri”. Il traffico di Roma non lo scoraggia.
É rimasto legato non con un filo ma con una gomena alla terra che lasciò adolescente. Il prossimo obiettivo verso cui marciare è una storia dello sport fiumano: sta raccogliendo testimonianze, attingendo informazioni e ricordi da altri vecchi fusti come lui, da famiglie che hanno il culto della memoria. E così, rivedendo gli appunti, racconta che non ci sono stati solo lui e Loik, scomparso nella vampata che distrusse il Grande Torino, ma tanti altri calciatori, pugili, atleti, velisti, canottieri, alpinisti. “Due sono sepolti dal ’26 da qualche parte sotto la vetta del Monte Bianco”. Una versione fiumana dell’assalto all’Everest di George Mallory e Andrew Irvine che, proprio in quegli anni, vestiti di tweed si persero in una tormenta dopo aver toccato i 8.400 metri.
Bisogna ascoltare questo anziano e solidissimo dottore in psicologia e sociologia quando parla di una società multietnica e multiculturale: italiani, slavi, tedeschi, ebrei, ungheresi. “Per gli ungheresi Fiume è rimasta Fiume, non Rijeka”. Perchè se Trieste era lo sbocco al mare di Vienna regia e imperiale, Fiume e Pola erano i porti di Budapest. E così la nostalgia per quel mondo perduto ha cominciato a far breccia, a inglobare non solo i fiumani, ma anche tutti gli altri: i triestini, gli istriani, i dalmati, gli zaratini, quelli che abitavano gli avamposti del Commonwealth di San Marco e che allo sport italiano hanno dato Giorgio Oberweger, Nereo Rocco, Nino Benvenuti, Agostino Straulino, Gabre Gabric avviata verso il secolo di vita e Ottavio Missoni, l’Adone che si trasformò nel Grande e Amabile Vecchio.