Stefano Righi, CorrierEconomia 14/10/2013, 14 ottobre 2013
CREDITO CACCIA AI CAPITALI E SIAMO ANCHE IN RITARDO NEL RESTITUIRE I PRESTITI BCE
Il 2014 sarà l’anno della rivoluzione. Il lungo processo di cambiamento indotto dalla crisi dei mutui subprime apertasi nel luglio del 2007 in Florida, e planata in Europa nel 2008, passando successivamente attraverso un paio di recessioni e una crisi dei debiti sovrani, sembra avviarsi a conclusione. Dal prossimo anno le prime 130 banche del Vecchio continente, tra cui 16 italiane, finiranno sotto la diretta vigilanza della Banca centrale europea. Centralizzato sarà il meccanismo di supervisione, il meccanismo di risoluzione delle crisi (vedi intervista a pagina 3) e l’assicurazione unica dei depositi bancari. Se ne è parlato in un recente convegno dell’Aspen Institute a Milano. La centralizzazione di queste funzioni intende ovviare ai più macroscopici vuoti normativi e strutturali evidenziati negli ultimi sei anni. Tanto ci ha messo l’Europa a parare il colpo e servirà un altro anno per avviare il meccanismo unico di supervisione costituito dalla Bce e dalle autorità nazionali. Ma il più sembra fatto, è delineato.
Parametri cambiati
Le banche italiane in questi sei anni hanno profondamente mutato il loro profilo. Sono cambiati tutti i top manager, le compagini azionarie e il tipo di business. Hanno realizzato importanti aumenti di capitale e investito nelle piattaforme online, hanno in atto una poderosa revisione degli organici, che potrebbe portare al taglio di 40 mila posti di lavoro sui 330 mila totali di oggi. Eppure, ancora non basta. Sul fronte del capitale, Unicredit e Intesa Sanpaolo, hanno da tempo elevato i loro standard patrimoniali ai massimi livelli di sistema, in linea con le prescrizioni delle norme di Basilea 3, pronte ad entrare in vigore. Ma le altre? Il Monte dei Paschi di Siena ragiona attorno a un’operazione da 2,5 miliardi di euro; Carige deve incrementare il proprio patrimonio di 800 milioni entro fine anno; la Banca Popolare di Milano ha già deliberato un aumento di capitale da 500 milioni. Il totale fa 3,8 miliardi di euro da trovare nei prossimi mesi.
Il vento dell’estero
Si tornano ad aprire problemi di azionariato. Il Monte dei Paschi e Carige hanno, come primo azionista, una Fondazione da cui in vent’anni non sono riusciti (o non hanno voluto) allontanarsi. Appare certo che, con la prossima operazione, sia Siena che Genova vedranno diminuire la quota in portafoglio ai due enti di riferimento. Ma chi sottoscriverà nuovo capitale in un settore come quello bancario che appare industrialmente maturo e in un Paese con modeste prospettive di crescita qual è l’Italia? I piccoli azionisti hanno già dato. I cassettisti Unicredit ricorderanno come prima della crisi, dei frazionamenti e degli aumenti di capitale, il titolo che oggi ha superato quota 5 euro, viaggiasse allora attorno ai 75 euro.
Le istituzioni pubbliche hanno smesso da tempo di fare il banchiere, anche se le tentazioni (come s’è visto nel caso Poste-Alitalia) sono sempre dietro l’angolo. Più probabile, allora, la ricerca di un partner estero, almeno dove le condizioni di governance lo consentono. È per questo che il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, insiste sull’esigenza di trasformazione sociale delle banche popolari quotate. In un mercato capitalistico, le regole della mutualità non sempre hanno diritto di cittadinanza.
Il nodo capitale
Proprio questo aspetto evidenzia un altro tema di debolezza delle istituzioni creditizie italiane. Nel loro complesso le banche hanno davanti mesi caratterizzati dalle scadenze di importanti partite obbligazionarie, che vanno rimborsate. Finora l’incremento delle disponibilità della Banca centrale europea ha migliorato, a tassi stracciati, la posizione di liquidità delle banche italiane. Ma fino a quando potrà durare? Appare chiaro che il ricorso a Francoforte non può essere considerato come una soluzione di equilibrio nel medio-lungo periodo e che quei denari oggi presi a prestito dovranno rientrare nel forziere della Bce. Urge quindi, in capo alle banche italiane, una via autonoma di presenza sui mercati dei capitali. La presa a prestito di ingenti quantità di denaro dalla Banca centrale a condizioni di estremo favore, che sono state poi investite in titoli di Stato italiani (l’importo è aumentato significativamente dall’inizio del 2013) rappresenta un escamotage redditizio ma destinato a concludersi.
In più, andrà disinnescata la marea montante delle sofferenze bancarie, vera ipoteca sul futuro, al punto che l’incidenza delle partite deteriorate lorde sul totale dei prestiti sfiora il 15 per cento del totale. C’è chi prospetta la creazione di una bad-bank in cui far confluire tutti i crediti dubbi.
Le banche italiane sono state soggette, in questi anni, a una severità imposta dalla Banca d’Italia, che altri istituti centrali non hanno messo in atto. È stato un bene. Se hanno resistito alla crisi, il merito è anche di questa attenzione particolare di via Nazionale. Ma ora è necessario un ulteriore passo in avanti. Si va verso l’annullamento delle disarmonie tra le diverse normative nazionali. La maggior severità a cui sono state chiamate le banche italiane potrebbe ora rivelarsi un elemento di vantaggio a livello europeo. Se saranno pronte ad approfittarne.
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