Federico Fubini, Affari&Finanza, la Repubblica 14/10/2013, 14 ottobre 2013
COSÌ LA CASSA DEPOSITI DIVENTA UN ALTRO EFIM L’IRA DI GORNO: ORA BASTA
Se è questa l’operazione, la farete senza di me. Non sono state certamente queste le parole usate da Giovanni Gorno Tempini qualche sera fa a Palazzo Chigi. Ma il senso ci si avvicina parecchio. L’amministratore delegato di Cassa depositi e prestiti non aveva nessuna intenzione di accollarsi un investimento in una compagnia in perdita da (almeno) dodici anni di nome Alitalia. Ma le pressioni del governo a farlo devono essere state abbastanza intense da indurlo a sfoderare l’arma nucleare della minaccia di dimissioni.
Non che qualcuno a Palazzo Chigi, in quel caso specifico, si sia lasciato intimidire. Per affiancare a Air France un socio «pubblico» (virgolette d’obbligo, come vedremo), il governo è andato alla fonte. Cdp, è noto, lavora in gran parte gestendo i depositi dei risparmiatori depositati presso Banco Posta. E in quel caso chi ha messo insieme il pacchetto Alitalia è andato direttamente al capitale generato dall’attività di Banco Posta. In qualche modo Cdp è stata disintermediata dal governo che la controlla all’80,1%.
Il vincolo statutario di Cassa a non investire in società in perdita è stato rispettato, certo. Ma il fatto che alla fine si sia usato il capitale libero di Poste, una fonte di liquidità separata ma vicina a Cassa, indica quanto sul serio la politica oggi prenda quella regola di sana gestione.
Quella di Alitalia è insomma un’esperienza da cui si può trarre almeno un indizio: è decisamente scomodo essere Gorno Tempini oggi. Se non sta al gioco della politica, corre in ogni momento il rischio che quest’ultima dia colpi di coda. Perché essere un gruppo a controllo pubblico che gestisce risorse private rischia di mettere chiunque in una posizione intenibile. Dopo più di due anni di recessione, la tentazione dei governi di turno di fare di Cdp il bancomat di tutte le emergenze è sempre più difficile da contrastare.
Se gli uomini e le donne chiusi nel fortino di Cassa hanno il complesso di Babbo Natale, colui dal quale tutti si aspettano un dono, forse vanno capiti. Il loro bancomat è ben rifornito, ma natura peculiare. Al bilancio chiuso il 31 dicembre 2012, Cassa depositi evidenzia una struttura ibrida. In parte si finanzia sul mercato o presso le banche un po’ come la sua cugina tedesca Kfw: ha 34 miliardi di debiti verso gli istituti di credito e 6,6 miliardi di titoli di debito in circolazione. Allo stesso tempo però ha 242 miliardi di «debiti verso la clientela», ossia la liquidità in gestione derivante dai depositi di Banco Poste. È il risparmio degli italiani, anzi dei più vulnerabili fra loro: la dimensione media di un deposito alle Poste è di 3.500 euro, soldi faticosamente messi da parte per lo più da anziani e immigrati. Di questi 242 miliardi in realtà circa 150 sono depositati da Cassa in un conto presso il Tesoro che li remunera più o meno come un titolo di Stato. Quei fondi, pari a circa il 10% del Pil, sono vitali per la gestione senza traumi del debito pubblico italiano. Il resto della liquidità di Banco Posta invece può essere impiegata da Cdp anche in investimenti di altro tipo.
Cdp lavora dunque con queste due fonti di finanziamento, prestiti del mercato e risparmio postale. Ciò significa che lavora senza un solo euro di denaro pubblico, benché la politica d’istinto non sembri percepirlo. Cdp non è l’Iri e neppure l’Efim, la finanziaria di Stato che tappava buchi ovunque e finì liquidata nel ’92 con 18 mila miliardi di lire di debiti. Qui è la radice del problema, in fondo. Quando si parla di Cdp è difficile stabilire dove inizi l’interesse pubblico e dove finisca la (legittima) difesa di interessi privati, quelli di chi le fornisce le risorse. Sulla carta, la Cassa dovrebbe finanziare investimenti che assicurano un rendimento solo nel lungo o lunghissimo periodo, come certe infrastrutture nell’energia o nei trasporti: F2i, il suo veicolo a questo scopo, ha partecipazioni in Sea (Aeroporti Milano) Sagat (aeroporto di Torino), Mediterranea delle Acque (servizio idrico di Genova) o Enel Rete Gas. Nel frattempo Cdp dovrebbe anche prendere partecipazioni di capitale in imprese promettenti. Casi di scuola sono la partecipazione del Fondo strategico (controllato da Cassa) in un gruppo farmaceutico all’avanguardia come Kedrion o in Metroweb, la società per la cablatura a fibre ottiche delle città italiane. Su una scala più piccola, il Fondo italiano d’investimento (anch’esso controllato da Cassa) investe capitale in decine di aziende che a volte non superano neanche i 10 milioni di fatturato, per esempio nel settore delle macchine tessili, nella produzione di yacht o nelle apparecchiature mediche.
Fin qui la parte indiscutibilmente virtuosa. Su spinta dei manager, ma anche su impulso politico dei vari governi che si sono succeduti, Cdp ha dimostrato di saper evolvere per dare capitale alle imprese durante la grande crisi.
Poi però c’è il resto, la zona grigia e i «no» che i manager devono dire alle spinte del governo di turno. C’è da ridurre il deficit per stare nel 3% del Pil sul 2013? Il Tesoro di colpo vende a Cdp un portafoglio di immobili per mezzo miliardo di euro e questa dovrà piazzarli sul mercato o più probabilmente a questa o quella banca. È appena successo. E solo il futuro - chissà quando - rivelerà se la cessione sia avvenuta a prezzi di mercato o a valori gonfiati che non emergeranno finché qualcuno non troverà davvero un compratore che vuole entrare in questo o quel palazzo ex pubblico.
C’è da ridurre il debito «privatizzando »? Sace, Fintecna e Simest vengono trasferite dal Tesoro alla sua controllata Cdp per 5,4 miliardi (0,3% del Pil). È avvenuto l’anno scorso. Non male per Cdp, se non altro perché Sace vanta una gestione significativamente in attivo. E in effetti Cassa depositi è fuori dal bilancio dello Stato, grazie a quella quota del 18% in mano alle fondazioni. Ma davvero è questo il modo di ridurre un debito pubblico che ormai si sta avviando verso il 135% del Pil? Certo a tecniche simili ricorre anche la tedesca Kfw, aiutando il governo di Berlino, ma la Germania non ha bisogno di rassicurare gli investitori esteri. Simili valutazioni si potrebbero fare sul 26% di Eni in mano a Cassa, sul 29% di Terna (la rete elettrica) o sulla nuova arrivata quota in Snam. Mentre la galassia di medie imprese italiane sono a corto di capitale e di credito, davvero non c’è un modo più produttivo di impiegare le risorse? Se Cdp serve da alibi per non affrontare i nodi delle cessioni di attivi dello Stato, nessuno alla lunga può guadagnarvi: né lei, né i depositanti di Poste, né i contribuenti.
C’è poi l’altra componente, quella delle operazioni di salvataggio dell’«italianità» a cui Cdp viene chiamata in extremis ogni volta che, a scoppio ritardato, ci si accorge che un investitore estero sta per prendere il controllo di una grande azienda. Il senatore Massimo Mucchetti (Pd), presidente della commissione Industria, nota che di Cdp neanche ci sarebbe bisogno se solo in Italia esistessero capitalisti privati all’altezza. «Dove sono gli investitori sul mercato capaci di fare il loro mestiere?», si chiede Mucchetti. Certo Alitalia è stato il caso più vistoso nel quale i manager di Cdp, meritoriamente, si sono rifiutati di fare un mestiere che non è il loro. Anche qui un po’ di prospettiva non fa male: Ulrich Schroeder, capo operativo di Kfw, non sarà stato contento quando il governo di Berlino gli ha ingiunto di estendere un prestito colossale alla Grecia, ma lo ha fatto. Eppure non tutti i gatti sono grigi allo stesso modo: il consiglio di gestione di Kfw è composto da manager di professione, mentre i politici siedono nel consiglio di sorveglianza. Nel consiglio d’amministrazione di Cdp invece la maggioranza è composta da dirigenti del Tesoro, un po’ troppo per un organismo formalmente fuori dal bilancio pubblico. Questo dev’essere un dettaglio che non va giù ai manager di Cassa, almeno a giudicare dal fatto che Gorno Tempini nel board del Fondo strategico ha voluto esperti puri di bilancio o governo societario: per esempio Elena Zambon e Rosalba Casiraghi.
Ma, appunto, questi sono i vincoli entro cui si deve muovere un’istituzione ibrida, metà fondo d’investimenti di diritto privato (secondo i manager) e metà Iri (secondo molti politici). Il paradosso è che a volte il ruolo di custode dell’italianità piace anche a Cdp. È successo in un caso, quando la Cassa è stata invocata per strappare la rete di Telecom Italia agli spagnoli di Telefonica. Quella sì sarebbe un’operazione interessante, da sposare con Metroweb per creare l’infrastruttura dello sviluppo del digitale nel paese. Sfortuna vuole che proprio questa sia anche la più difficile, perché Telefonica non vende. Molti meno concorrenti, chissà poi perché, se si vuole investire in Alitalia.