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 2013  ottobre 14 Lunedì calendario

L’ITALIA DEL CRICKET VINCE CON LO IUS SOLI APPLICATO AL CAMPO


Ma che gioco è il cricket? È vero che una partita può durare anche cinque giorni? «Continuate pure a seguire il calcio, tanto non siete più di qualche centinaia di milioni – osserva il giovane Nehru mentre serve ai tavoli del ristorante indiano dove lavora –. Noi preferiamo il cricket, e nel mondo siamo più o meno tre miliardi».
Ambulanti bengalesi, panettieri pachistani, badanti srilankesi, ristoratori indiani: ognuno di loro porta nel nostro Paese il suo sogno di riscatto, la sua manodopera, la sua famiglia. Ma dismessi i panni dell’immigrato è pronto a indossare la maglietta di una squadra, una qualsiasi, purché sia cricket. Racconta la storia di molti di loro, il libro «Italian Cricket Club»
di Giacomo Fasola, Ilario Lombardo e Francesco Moscatelli (Add), un viaggio nell’Italia dell’immigrazione che resiste alle discriminazioni e che rimodella la propria identità grazie alla forza del gioco.
Per chi non lo sapesse, in una squadra di cricket ci sono undici giocatori, e nel corso della partita le due squadre si alternano alla battuta e al lancio. Si fa punto quando con la mazza si riesce a spedire la pallina fuori dal campo, oppure correndo avanti e indietro finché gli avversari non la recuperano. La squadra che lancia ha l’obiettivo di eliminare i battitori afferrando al volo la pallina o colpendo i tre paletti piantati nel terreno che si trovano dietro al battitore. È uno sport che prevede la possibilità di restare in campo per molto tempo, e quindi di studiare, conoscere, imparare a tollerare l’avversario. George Bernard Shaw una volta disse che «gli inglesi hanno inventato il cricket perché, non essendo un popolo particolarmente spirituale, volevano darsi un’idea di cosa fosse l’eternità», ma Shaw era irlandese e subiva più il fascino della Russia sovietica che della fairness britannica. È di quest’ultima che il cricket è intriso, tanto che ancora oggi in Gran Bretagna si usa l’espressione «It’s not cricket» per indicare comportamenti scorretti, inopportuni, poco etici.
Tutto questo è arrivato in Italia grazie a quell’esercito di lavoranti più o meno clandestini – per lo più provenienti dal Subcontinente indiano - che negli ultimi anni hanno contribuito al cambiamento sociale: da Piazza della Loggia a Brescia, fino alla romana Villa Pamphili, passando per Genova, Venezia e i piccoli centri dell’Emilia Romagna, è tutto un silenzioso fiorire di campi di cricket, dove la domenica giocatori induisti e islamici, indiani e pachistani, sinhala e tamil decidono di mettere da parte identità e differenze per divertirsi con una mazza e una pallina.
Un piccolo mondo fatto di eroi e campioni, capaci di intonare «Fratelli d’Italia» e pregare al termine della partita, di mettere da parte gli odi interni e ritrovarsi uniti contro le ronde leghiste, ma anche di dedicare a Umberto Bossi lo «European Under 15 Division 2 Championship»: «Questa vittoria è per chi non vorrebbe che questi ragazzi fossero italiani: hanno dimostrato sul campo che gli immigrati sono una ricchezza» disse in quell’occasione il presidente della Fondazione Cricket Italiana Simone Gambino al termine della finale con l’Isola di Man nel 2009.
Col passo dei cronisti curiosi, gli autori di Italian Cricket Club non si limitano a raccogliere storie come quella di Thushara, lo srilankese che da Marino, fuori Roma, è finito a giocare nei tornei francesi, o del pachistano Alaud Din, che riesce a giocare la sua ultima partita da cittadino italiano, coronando il sogno di una vita, ma ricostruiscono le tappe di un doloroso e non ancora compiuto processo di integrazione politica, che fatica a riconoscere degli italiani in uomini che già si sentono tali. Far finta di non vederlo, o peggio, voltarsi dall’altra parte, «it’s not cricket», come direbbero gli inglesi.