Giovanni vigo, Sette 11/10/2013, 11 ottobre 2013
GIA’ NEL SETTECENTO I FURBETTI INTASCAVANO GLI AIUTI STATALI
L’Italia che si apprestava a entrare nel secolo dei lumi non era più il Paese depresso dei decenni centrali del Seicento, ma era certamente un Paese che aveva perso la supremazia economica brillantemente difesa per secoli. L’area centro-settentrionale era riuscita, sfruttando le risorse umane e naturali di cui era dotata, a conservare il primato nella produzione del filo di seta, e a mantenere in vita alcune produzioni di lusso come la liuteria e le maioliche, e a diffondere un pulviscolo di altre attività nel mondo rurale.
All’apertura del secolo la popolazione era tornata ai livelli di cento anni prima. Se l’esperienza del passato contava qualcosa, gli abitanti della penisola non dovevano attendersi un avvenire brillante. Dovevano semmai aspettarsi altre carestie e altre pestilenze perché, con i suoi 13 milioni e mezzo di abitanti, la popolazione sembrava aver raggiunto di nuovo una soglia critica. E invece, dopo un’ultima apparizione a Marsiglia, la peste scomparve dal vecchio continente e anche le carestie diventarono sempre meno frequenti. Nel 1800 la popolazione aveva sfondato il tetto dei 18 milioni: in cento anni era cresciuta di un terzo, ma non era aumentata nella stessa misura la produzione, con la conseguente riduzione del reddito pro capite. Fra l’inizio del Settecento e la metà dell’Ottocento, la produttività dell’agricoltura era diminuita di un buon 16% e il reddito pro capite era sceso ancora di più.
La popolazione aumenta, le risorse no. Nel secolo che va dal 1720 al 1820 l’agricoltura era caduta in una spirale negativa che rischiava di perpetuare una situazione di sottosviluppo a causa dello squilibrio fra popolazione e risorse, tipico dei Paesi arretrati. Un destino non diverso toccò all’industria che nello stesso arco di tempo fece registrare una caduta del prodotto pro capite che si aggirava intorno al 15%. È quasi inutile sottolineare che anche Per rivitalizzare la produzione il governo elargì premi, sovvenzioni, prestiti agevolati, esenzioni fiscali e altri privilegi: per averli, alcuni imprenditori presentarono progetti faraonici destinati al fallimento. Poi chiudevano le attività. Ma intanto avevano intascato il bottino di Giovanni Vigo nel XVIII secolo la parte del leone toccava ancora al ramo tessile che presentava tuttavia qualche novità. Il cotone, che in precedenza era scivolato all’ultimo posto, riprese quota trovando un ambiente favorevole nei centri minori.
I tentativi più ambiziosi per restituire l’antica vitalità a questo ramo vennero però compiuti in Lombardia dove il governo elargì somme ragguardevoli sotto forma di premi, sovvenzioni a fondo perduto, prestiti a tasso di favore insieme a esenzioni fiscali e altri privilegi: tutte misure da far invidia ai più accesi ammiratori di Colbert. Allettati da queste facilitazioni e per non farsi sfuggire un’occasione irripetibile, alcuni imprenditori non esitarono a fare promesse che non avrebbero mai potuto mantenere. I progetti presentati al governo parlavano dell’installazione di centinaia di telai e dell’assunzione di migliaia di lavoratori, e promettevano inoltre consistenti vantaggi per la bilancia commerciale e laute entrate per l’erario. Gli inizi erano quasi sempre favorevoli, ma ben presto insorgevano difficoltà “impreviste” e viene il legittimo sospetto che fossero ingigantite ad arte dai beneficiari degli aiuti per giustificare la loro ritirata dopo aver intascato il bottino.
L’industria della lana aveva seguito un percorso non molto diverso. Nel Vicentino i centri di Schio, Thiene e Valdagno anticiparono i più consistenti sviluppi ottocenteschi. Prato restava un centro fiorente come lo erano il Biellese e la provincia bergamasca. Unità produttive più minuscole erano presenti a Lecco, Ballabio, Como, Asso e in altre piccole comunità dell’alta Lombardia e del Veneto.
Un tentativo di ridare lustro alle manifatture cittadine fu compiuto a Milano verso la metà del secolo. Si tratta di un episodio degno di riflessione. Nel 1746 aveva aperto i battenti il lanificio Clerici che dava lavoro a 289 operai tra filatori e tessitori. Le promesse dei suoi proprietari dovevano essere state particolarmente convincenti se il Consiglio supremo di economia aveva accolto tutte le loro richieste. Ma Pietro De la Tour, che ispezionò gli stabilimenti nel 1766, trovò i depositi delle materie prime quasi vuoti e ciascuno dei panni esaminati «difettoso, duro, pieno di colla, sguernito di lana e del pelame necessario per caratterizzare il buon panno». Nonostante la loro scadente qualità i panni milanesi erano più cari di quelli esteri, circostanza che giustificava ampiamente il ricorso all’importazione. Alla luce di questo e di altri insuccessi Cesare Beccaria commentava: «Quando le manifatture non possono sostenersi che con continue largizioni del R. Erario, vi è sempre da temere la pronta decadenza, invece di uno stabile incremento».
Nel ramo serico le cose andarono meglio. Nel corso del secolo la produzione di seta greggia raddoppiò e ne trasse vantaggio l’intero settore, a esclusione delle fasi finali della lavorazione, in particolare la tessitura, che erano anche le più redditizie. Un celebre caso di spionaggio industriale testimonia però che il nostro Paese aveva ancora qualche attrattiva per gli stranieri. Nel 1721 (o, secondo alcuni, qualche anno prima) John Lombe si recò in Piemonte per osservare da vicino il funzionamento dei mulini da seta e per contrabbandare, come fece, i disegni necessari per costruirne un esemplare in Inghilterra. Dopo pochi anni, insieme al fratello Thomas, «costruì a Derby un enorme setificio azionato dall’energia idraulica, uno stabilimento lungo centocinquanta metri, a cinque o sei piani e con circa 460 finestre, che fu una delle meraviglie del suo tempo». Alla metà del secolo il setificio di Derby aveva fatto scuola: fabbriche analoghe erano state impiantate a Londra e in altre città, e in alcuni casi erano persino più grandi del colosso di Lombe.
Verso la rivoluzione industriale. L’episodio è interessante per due motivi. Esso dimostra che ai primi del Settecento l’Italia deteneva ancora un invidiabile primato nella tecnica della torcitura, ma dimostra anche che gli imprenditori inglesi, dotati di maggiori capitali e sospinti dall’energia tipica degli imitatori, pensavano più in grande e in prospettiva avrebbero potuto fare a meno del filo italiano approvvigionandosi di seta greggia nel lontano Oriente. Erano i primi passi della rivoluzione industriale che in pochi decenni avrebbe sospinto ancora di più l’Italia ai margini dell’Europa. (9 - continua)