Emanuela Audisio, la Repubblica 14/10/2013, 14 ottobre 2013
MEMORIE DI ADRIANO
ROMA Se ne andò via di schiena, dando le spalle a tutto. Con la sua veronica, malinconica e definitiva. Un ragazzetto al cancello gli chiese: Adrià mi regali ‘a racchetta? Lui rispose: prenditele tutte, io ho finito. Trent’anni fa Adriano Panatta uscì dal campo per l’ultima volta. Il tennis era ancora un modo di vivere: includeva, non escludeva, ma lui lo sentiva come un padrone feroce. Staccò la catena. Quel giorno lì è dimenticato, anche l’anno, insieme a quella maglietta stretta. «Non mi ricordo niente. Non sapevo nemmeno di aver dato l’addio al tennis nel 1983 a 33 anni».
Memorie di Adriano. Poco monumentali, per nulla retoriche. «Ero stanco, non ne potevo più, facevo fatica a metterci la testa, avevo tre figli, stare sempre fuori era pesante, mi ero sposato con Rosaria a 25 anni, smettere era una liberazione. Avrei potuto tirare avanti ancora un paio di stagioni, ma non avevo più voglia». La sua indolenza, ma anche la sua lucidità nel capire che le cose prima finiscono dentro di noi e poi fuori.
«A Borg sconsigliai il rientro, mi voleva come suo allenatore, ci vedemmo a Milano, lo vedevo un po’ depresso, anzi perso, insisteva per giocare con la racchetta di legno. Mi pregò di dargli una mano. Fui scettico anche con Loredana Bertè, allora al suo fianco. Dissi a Björn: ma dove vai, ti prendono a pallate, sarai ridicolo. E così andò». Il mondo aveva Borg, l’Italia aveva Panatta. Non c’era storia: Borg ha vinto 6 volte a Parigi, l’unico che per due volte lo fece inciampare era Panatta che vinse nel ’76. «Lo capivo, mi faceva ridere, trovavo buffe le sue nevrosi, lo chiamavo “il matto calmo”. Stava ore nello spogliatoio con Bergelin a provare l’accordatura delle racchette, io me la sbrigavo in un minuto». Da quel Roland Garros nessun italiano è più arrivato in una finale del Grande Slam. Fanno 37 anni. Panatta avrebbe potuto vincere e pretendere di più (da se stesso), ma aveva un suo modo di essere campione. Sereno, libero, molto romano. «Sono in pace, non ho mai ragionato per accumulo di gloria, per sedermi sui titoli. Non ho più nemmeno i trofei, persi in qualche trasloco, ho preferito provare, esistere, curiosare.
Non ho lottato contro il mio talento, gli ho concesso pause, ne ho rispettato le pigrizie che erano fame di altro. L’attimo mi è sempre andato bene, sessanta secondi di felicità sono un lampo di eternità soddisfacente. La magia non può durare, io l’ho avuta, me la sono fatta bastare. Ricordo la tristezza che provai dopo aver vinto Parigi: tutto qui? Ti senti vuoto, freddo, depresso. L’agonismo chiede molto al tuo corpo, ti fa oltrepassare il limite, esci fuori da te, poi rientrarci è un problema».
Adriano voleva stare nella sua pelle, non tradire i suoi sensi. «Il professionismo esasperato non è per me. Non parliamo del divismo. Trovo insopportabili i giocatori che girano con baby-sitter, guardie del corpo, preparatori atletici. Io ero gestito dal gruppo di Mc Cormack e non sopportavo i lacci: dovevo dire dove andavo, chi vedevo, come e quando. Un’intrusione nella mia vita privata. Così per tornare libero m’inventai che ero ricco di famiglia e che mi sarei ritirato nel mio castello in Toscana. Stavo con Mita Medici, il cui vero nome è Patrizia, una donna dal carattere molto forte. Nel ’72 andammo in vacanza a Stromboli, in una casa di pescatori. Lei a Milano recitava in Ciao Rudy con la Bertè, io la tradii con Loredana, non ne vado fiero».
Adriano leggeva, s’informava, si mischiava. Più non c’entrava con lo sport, più gli piaceva.
Il Manifesto, i capelli lunghi, il ciuffo, ovunque fermentasse qualcosa. «Sono cresciuto in una famiglia socialista. Mio nonno lavorava il marmo, professione pagata con la cecità, è stato uno degli operai che hanno costruito il Colosseo quadrato a Roma. Ora faccio fatica a farmi rappresentare, al cambiamento non ci credo più, dagli anni Ottanta il disfacimento culturale è stato totale, anche in tv. Il nostro è un Paese che non si confronta più e la legge Bossi-Fini andrebbe abolita».
Lo chiamavano il Cristo dei Parioli (suo padre era il custode del circolo), per la sua aria sofferta e stremata in campo. Ma Adriano volava, ci arrivava, senza paura. Non era un tennis nevrotico, solo talento a lento rilascio. «Mi sono sempre conosciuto bene, ero lucido e rischiavo. Ho vinto più tie-break di quanti ne abbia persi, a Roma al primo turno nel ’76 salvai 11 match-point contro Warwick.
Giocavo un tennis di colpi dritti, molto audace e dispendioso, dovevo essere al massimo della forma per riuscirci. Mi dispiace non aver vinto Wimbledon nel ’79, avevo un tabellone favorevole, ma nei quarti contro Dupre mi impicciai. Già prima dell’inizio del torneo, non trovavo i colpi, così presi l’aereo, tornai in Italia, a Forte dei Marmi, per un tranquillo weekend al mare, e al lunedì rientrai a Londra. Mi criticarono, ma ero fatto così, avevo bisogno di stacco. Io ancora oggi quando rientro a casa mi metto sul letto e da lì leggo, organizzo, lavoro. Laver, Rosewall, Newcombe, i più grandi restano loro. Mi piace Federer perché quando lo vedi capisci che è un animale padrone del suo territorio, certe angolazioni riescono solo a lui».
Adriano ora è nonno, il nipote porta il suo stesso nome. «Ho iniziato e finito la mia carriera a Roma. Contro lo stesso avversario: l’argentino Vilas. Come se la mia vita fosse l’intreccio di uno stesso filo. Mi manca solo incontrare il ragazzo a cui regalai le mie racchette, così per curiosità. Lancio l’appello. Per ricordarmi di quell’attimo in cui lasciai il passato».