Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  ottobre 14 Lunedì calendario

BENITEZ, DIARIO NAPOLETANO “IL CALCIO È FATTO DI BUGIE”


CASTEL VOLTURNO Visto da vicino, Rafa Benitez è quel che sembra visto da lontano, in tv: un tipo tranquillo. Se per capire le reazioni di Ancelotti occorre guardargli il sopracciglio sinistro, lo specchio di Benitez sono le guance, che tendono a imporporarsi. Tranquillo e tranquillizzato: non parleremo dell’ultima partita né della prossima, gli ho detto quando ci siamo seduti a un tavolo, nella sede del Napoli. Qualche domanda giusto per conoscerlo meglio.
Cos’è il calcio?
«Il calcio è bugia».
Questa l’avevo già sentita da Trapattoni, in dialetto, quando allenava la Juve: «Sèmm pagà per cuntav su di ball». Ossia: siamo pagati (noi allenatori) per raccontarvi (a voi giornalisti) frottole. E questa frase lapidaria, che suona come “la vida es sueño” non me l’aspettavo da un fervente sacchiano. Possiamo approfondire?
«Certe verità non conviene dirle in pubblico.
Lo so anch’io se un mio giocatore ha giocato male, ma non lo ammetterò mai in tv o sui giornali.
Lo brucerei, e invece mi serve. Ma è mio diritto e dovere, in privato, parlare con quel giocatore e dirgli dove ha sbagliato e come fare per non rifare quell’errore.
Altrimenti, che ci sta a fare un allenatore?».
Lei si riconosce nell’etichetta di sacchiano?
«È un collega che stimo moltissimo, il suo Milan è nella storia del calcio. Ricordo di quando andavo a vedere gli allenamenti a Milanello, con Arrigo e poi con Capello. Ma sono andato anche alla Fiorentina quando c’era Ranieri. E con quanta attenzione leggevo le fotocopie che mi preparava Franco Ferrari a Coverciano».
Quando Sacchi s’era imposto, in tutta Italia si giocava col 4-4-2, con poche eccezioni: Galeone, Zeman, Zaccheroni. Oggi, in serie A, col 4-4-2 c’è solo il Chievo. Si va a mode, secondo lei?
«Da quando sono a Napoli ho affrontato squadre tutte diverse quanto a impianto. Su questo argomento ho anche scritto un pezzo per “The Independent”: qui c’è una grande varietà di moduli, ci vuol poco a passare dal 4-5-1 al 4-3-3. Ma più del modulo conta la mentalità».
Lei è passato alla difesa a 4, col Napoli.
«È quella che preferisco. Questo non toglie che a Liverpool e altrove abbia anche difeso a 3, ma raramente per scelta iniziale ».
Mi tolga una curiosità: quando vi ritrovate tra allenatori a discutere di calcio, il calcio è ancora bugia?
«Se, faccio un esempio, mi trovo con Ancelotti, so che del Real non mi dirà tutto né io del Napoli. Su tutte le altre squadre potremmo permetterci di essere sinceri».
Ancelotti, Istanbul, da 0-3 a 3-3 col suo Liverpool, e poi vittoria ai rigori. Le capita di ripensarci?
«Sì, e se anche non ci ripensassi troverei sempre qualcuno che mi chiede: ma come avete fatto?».
Glielo chiedo anch’io.
«Pensi che a due minuti dall’intervallo eravamo sotto di due gol e già mi stavo chiedendo cosa avrei potuto dire nell’intervallo ai miei. E tac, becchiamo il terzo. Che ha semplificato le cose, in un certo senso. Ragazzi, ho detto, fin qui hanno giocato solo loro, proviamo a giocare anche noi e se facciamo subito un gol la situazione può cambiare. Ne abbiamo fatti tre in sei minuti e abbiamo rischiato solo su Shevchenko nel finale, ed è stato bravo Dudek. Che sapeva già come avrebbero tirato quattro dei cinque milanisti. Li avevamo analizzati. Di quella grandissima partita voglio dire un’ultima cosa: tra me e Ancelotti nessuno ha sbagliato una mossa, tutto quel che potevamo fare l’abbiamo fatto».
Mi son fatto l’idea che lei sia nato con la vocazione dell’educatore, se non dell’allenatore.
Leggero arrossamento.
«Alla scuola San Buenaventura ero compagno di banco di Ricardo Gallego. La nostra squadra di dodicenni vinse il torneo fra tutte le scuole di Madrid».
In che quartiere è nato?
«Aluche. Se è pratico di Madrid, la linea metrò tra Carabanchel e Casa de Campo. Un quartiere di lavoratori. Mio padre Francisco era un colchonero, tifoso dell’Atletico Madrid. Aveva cominciato a undici anni come facchino, finché era diventato direttore commerciale di una catena d’alberghi. Rosario, mia madre, è quella che più m’ha incoraggiato sulla strada del calcio. Era contenta quando a 13 anni sono entrato nella famiglia del Real, per cui simpatizzava. A quell’età facevo le pagelle della mia squadra».
E gli altri ragazzini lo sapevano?
«No, naturalmente. Il calcio è bugia, ma anche discrezione. Erano appunti che servivano a me, già allora pensavo, sia pure vagamente, in termini di collettivo. Ero una specie di allenatore in campo. E risento preciso il fischio di mio padre, che dai bordi
urlava: piantala di parlare e vai avanti a fare gol».
Non era la sua specialità.
«Ufficialmente, una ventina. Giocavo centrocampista arretrato, e anche libero. Il mio idolo era Beckenbauer, ma anche Di Stefano, Pelé e, poi, Maradona».
È entrato a 13 anni nella famiglia del Real. Ne è uscito per le conseguenze di un infortunio. Ci è rientrato come tecnico delle squadre giovanili, vincendo sei trofei. Ha lavorato con Del Bosque. Quanto le è pesato passare dal campo alla panchina a 26 anni?
«Non tantissimo, forse perché mi sentivo un po’ allenatore anche quando giocavo. E questo è un lavoro da privilegiati, mai dimenticarselo. Chi mi ha condizionato la carriera? Il numero 10 del Canada, in Messico. Il nome non lo so. Universiadi del ‘79. Entrata da dietro, il mio ginocchio destro che salta. Quindici giorni senza trattamento, poi gesso e fisioterapia. Ma il ginocchio non è mai guarito. Non per fare il calciatore ad alto livello, almeno. Così scesi di livello, quattro anni al Parla, poi al Linares, dove mi scambiavano per un mancino naturale, mentre io sono destro, ma per calciare forte dovevo usare l’altro piede. Nel frattempo mi ero laureato all’equivalente della vostra Isef. A Linares insegnavo ai bambini delle elementari».
Com’è che se n’è andato dal Real?
«Volevo seguire una strada tutta mia. Al Real, prima regola della casa, già da ragazzino t’insegnano che conta solo vincere. Arrivare secondi è come arrivare ultimi».
E lei ci crede?
«Ma a lei piace perdere? Me ne trovi uno che è contento quando perde, anche da piccolo. Per qualche anno, dal Real Valladolid all’Osasuna, mi hanno appiccicato l’etichetta di inesperto, di tecnico troppo giovane. E l’appiccicavano gli stessi che mi avevano fatto firmare il contratto. Quando mi chiedono le differenze tra il calcio inglese e gli altri dico che nel calcio inglese c’è l’abitudine di rispettare i programmi. Si fissa un obiettivo in capo a tre anni e hai tre anni per centrarlo. Altrove succede di meno».
A Milano, per esempio?
«Diciamo che ho avuto poco tempo e chiudiamola qui. Ma qualcosa in quel poco tempo ho vinto».
Ha vinto col Valencia, col Liverpool, col Chelsea. È stato il primo spagnolo ad allenare nella Premier League. È affezionato a qualche vittoria in particolare?
«Nel nostro mestiere si guarda sempre avanti. Ma c’è un episodio buffo di quando allenavo il Liverpool. Stavamo provando schemi su palla inattiva, ma la traiettoria del pallone era falsata da un fortissimo vento. Stop, qui c’è troppo vento, ho detto, e tutti si sono messi a ridere. Avevo pronunciato wind, vento, come wine, vino».
Cosa vede guardando avanti?
«Un campionato impegnativo, ma ho fiducia nei miei giocatori ».
Mi risulta che, all’inizio della preparazione, molti fossero un po’ perplessi per la leggerezza degli allenamenti e la poca palestra, rispetto a precedenti esperienze.
«Guardi, l’allenatore perfetto non esiste, come non esiste il giocatore perfetto. Tutti possono migliorare come qualità tecnica, fisica o tattica, questo non si discute. Per me il calcio è 80% pallone e 20% palestra, non di più, forse anche meno. Sa quali sono i giocatori che fanno la fortuna di un tecnico? Quelli bravi a muoversi tra due linee. Come faceva Gianfranco Zola. Come fa Mata. Avendo in rosa due come Hamsik e Pandev, sotto questo profilo sto tranquillo».
Si sta ambientando a Napoli?
«Non è difficile. Grande città, calorosa. Un problema per me è che se vado al ristorante si blocca il traffico. E così il più delle volte sto qui in albergo a Castel Volturno. Casa e bottega, giusto? L’altro giorno mi hanno fatto assaggiare il babà».
Nato in Lorena per mano di un re polacco detronizzato, Stanislas Leszczinski, e arrivato a Napoli, via Parigi. Se accetta un consiglio, provi piuttosto la pastiera, che è napoletana al 100%. Fosse a Madrid, cosa mangerebbe in primis?
«Una tortilla con dentro tutto: patate, cipolle, peperoni. Ma qui, coi miei collaboratori Paco, Antonio e Xavi ogni tanto ci facciamo una paella che prepara Xavi. Con poco pesce, non ne vado pazzo».
Dopo tre anni a Valencia, una paella è quasi d’obbligo.
«Ma non è un gesto nostalgico, è quasi un’abitudine. Per essere felici, invece, come da bambini, bastano uova fritte e patatine».
Veronelli sarebbe d’accordo. Sacchi penso di no.