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 2013  ottobre 14 Lunedì calendario

IL GIGANTE DI NEW YORK


DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK È una delle mattine più calde di luglio, nel quartiere generale di Bill de Blasio al nono piano di Court Street nel cuore di Brooklyn l’aria è spessa, i condizionatori accesi al massimo non cancellano il sudore dalle camice, le facce sono umide. Anna Greenberg, la regina dei sondaggi, legge le ultime rilevazioni: «Non ci muoviamo dal 9%», ripete. Gli altri non alzano gli occhi dai computer, come se dagli schermi potesse arrivare l’ispirazione vincente. Le primarie democratiche per la corsa a sindaco di New York sono nella fase cruciale, il destino si gioca sul filo delle scelte da prendere in un secondo: «Attacco Weiner, da oggi lo attacco duramente» dice il candidato che passeggia nervoso, un gigante in trappola. Ma il suo stratega Bill Hyers lo ferma brusco, quasi urlando, come d’abitudine: «No, sarebbe un errore. Non devi togliere gli occhi dalla palla: il nemico è Bloomberg. Da adesso ci scagliamo ancora più duramente contro di lui».
Inizia così, nel giorno peggiore della sua campagna elettorale la riscossa che porta Bill de Blasio ad un passo dalla poltrona più importante. A meno di un mese dal voto, l’ultimo sondaggio del Wall Street Journallo dà in vantaggio con il 67% dei consensi contro il 27 del rivale repubblicano Joseph Lhota.
Gli endorsement dei coniugi Clinton e del presidente Obama sono solo l’ultimo riconoscimento, i media lo danno già per vincente, la gente lo applaude per le strade. «Calma, adesso viene il difficile: quando sei così in alto puoi solo scendere e le sorprese non sono
mai finite»: sono passati quasi tre mesi da quella mattina, siamo alla fine di settembre, è sempre Bill Hyers (già collaboratore di Obama) a parlare. In uno studio legale a midtown un gruppo ristretto di finanziatori deve incontrare quello che loro sperano sia il futuro sindaco. Prima che Bill entri nella stanza, sono i suoi uomini a raccontare come sono arrivati sin qui, grazie ai tre punti chiave della loro strategia. I fondi con una ricerca quasi porta a porta di sostegno economico, il messaggio con la parola decisiva “uguaglianza” e l’imperativo di chiudere in maniera radicale l’era Bloomberg e infine il lavoro sul territorio, con una squadra di volontari cresciuta a ondate progressive, sino agli ultimi duecento arrivati subito dopo l’investitura delle primarie.
La maggior parte sono giovani, studenti universitari ma anche ragazzi delle high school.
Gli afroamericani e le donne sono lo zoccolo duro, ad ogni uscita pubblica sono la cornice che lo circonda. Sono le facce di chi ha scoperto o ritrovato la passione civile, sono quelli che stanno qui al secondo piano di un palazzo lungo Broadway nella parte bassa dell’isola. È il 20 settembre, una data importante, il candidato incontra la potente associazioni dei professori, in passato non era andata bene. Oggi il clima è diverso: «È stata la miglior discussione che abbia mai avuto. Siamo convinti che sia l’uomo giusto per voltare pagina», dice il presidente Michael Mulgrew e la sala applaude. Lui ricambia: «La scuola è l’arma vincente di New York, è tempo che i professori e i genitori tornino ad avere un ruolo decisivo nella nostra società. Tutti i nostri figli hanno il diritto di avere un’istruzione di qualità. Dovremo investire molte più risorse».
Peter sta sulla porta, ha 32 anni e viene da Brooklyn, lo stesso quartiere di de Blasio, tiene in mano una montagna di volantini. Fa sì con la testa mentre il suo candidato scandisce il suo credo: «La politica è una missione. Sento che è venuto il tempo di cambiare, l’uguaglianza deve essere il primo valore, non possiamo pensare che questa sia la città dei ricchi e dei privilegiati. Ci aspetta una svolta epocale e sono sicuro che la stragrande maggioranza dei newyorchesi la pensa come me». Peter non ha dubbi: «Vinceremo, la gente è stufa di lustrini e grattacieli: la vita reale delle persone è diversa da come viene raccontata. Bill è la speranza in una società migliore, più giusta». Gli occhi quasi brillano, la sua è un’adesione totale al progetto: «È autentico, simpatico. Crede in quello che dice e per questo è così convincente».
Ed è questo il segreto del suo successo. Il messaggio è breve, efficace, colpisce al cuore, come quando de Blasio è il primo tra i democratici a schierarsi apertamente contro la pratica dello stop and frisk (ferma e perquisisci) che la polizia di New York pratica tra le polemiche. Scelta decisiva, diffusa grazie al video tormentone del figlio Dante che con la pettinatura afro diventa virale su Internet tanto da conquistarsi persino una battuta del presidente Obama: «Gli invidio quei capelli».
«È stato dirompente» spiega Anna Greenberg. La decisione di girarlo viene presa ai tavoli del Friend of a Farmer Caffè di Gramercy Park, dove la squadra si riposa con forti dosi di caffè. All’inizio il set deve essere la cucina della casa di Park Slope, ma è troppo piccola e così ci si sposta dal vicino ma qui il problema è il contrario: l’arredamento è ultra chic, non va bene e così i dettagli troppo vistosi vengono sfumati al montaggio. Il risultato è perfetto, i sondaggi volano.
Il carisma adesso è quello del leader. Venerdì 4 ottobre sceglie la sede dell’Association for a Better New York su Lexington Avenue
per uno dei suoi discorsi più importanti, una sorta di manifesto. Arriva come sempre puntuale (una delle sue manie), consueto abito grigio, camicia azzurra e cravatta colorata, questa volta tra il giallo e l’arancione: «Bisogna cambiare la legge sui salari minimi, garantire a tutti una vita decorosa. Poi dovremo impegnarci per le abitazioni, sospenderemo le agevolazioni fiscali per chi costruisce condomini di lusso, dobbiamo incrementare l’edilizia popolare: la casa è un diritto. Vanno protette le minoranze, New York è di tutti. Non dobbiamo rassegnarci alle ingiustizie». Jim era qui anche un anno fa, quando de Blasio venne a presentarsi la prima volta: «Allora era impacciato, teso, nervoso: quasi non riusciva a parlare. Oggi è tutta un’altra storia, sorride, si muove con grande sicurezza: ha preso convinzione e forza».
Una trasformazione frutto del lavoro del suo team, ma anche dei consigli della sua famiglia, che gioca un ruolo decisivo. La moglie Chirlane racconta al New York Magazine: «Siamo una normale coppia anticonvenzionale». E la figlia Chiara nella stessa intervista aggiunge scherzando: «Sono fiera di aver collaborato con papà durante la campagna elettorale. Di averlo aiutato a convincere gli elettori che lui non è un noioso ragazzo bianco».
Intuizioni, ma anche tanto studio: «È un secchione, da mesi passa ore e ore per capire i segreti della macchina amministrativa, vuole sapere tutto. Non è affatto quel sognatore distratto che i suoi nemici tendono a rappresentare», spiegano i collaboratori. I suoi modelli sono il sindaco di Chicago, Rahm Emanuel, e l’attuale governatore del Maryland, Martin O’Malley. Il suo cibo preferito è la pizza, in onore alle origini italiane, che mangia da Di Fara. È qui che il figlio Dante lo convince ad esporsi di più sui social network, ad accettare interviste via chat con i suoi sostenitori. In una di queste rivela: «Il mio libro è l’autobiografia di Malcom X, penso che la sua vita sia un insegnamento importante per tutti noi».
Lettura che non deve piacere molto ai poteri forti della città, finanzieri e costruttori, che sono i più preoccupati della sua ascesa. Per rassicurarli, nelle ultime settimane mette in agenda incontri più o meno segreti con gli uomini di Wall Street. In un pranzo a midtown vede tra gli altri Rupert Murdoch e l’amministratore delegato di Goldman Sachs Lloyd Blankfein. Una fonte rivela al New York Times: «Beh, ci ha un po’ rassicurato ma non troppo».
È il primo ottobre, sono le dieci di una calda sera, sul marciapiede davanti al ristorante Elmo a Chelsea c’è Patrick, un afroamericano di 51 anni, socio di una compagnia di taxi. Come finanziatore ha appena sborsato i mille dollari previsti per ascoltare il suo candidato: «Ha parlato quasi due ore, ha detto tutte cose sacrosante. Mi dispiace per i potenti, ma si devono rassegnare. Al mondo non ci sono solo i banchieri, non sono loro a mandare avanti la città: siamo noi che fatichiamo, che ci alziamo all’alba tutte le mattine, che imprechiamo contro la crisi. Bill lo sa e adesso cambierà le cose». O almeno così ha promesso.